Articoli di Andrea Balzola pubblicati su “Ateatro” (2002-2004) << back

www.ateatro.it

webzine di cultura teatrale

a cura di Oliviero Ponte di Pino

in collaborazione con Anna Maria Monteverdi

 

--------------------------------------------------------------------------------------------------------

maggio 2004

 

Le recensioni di "ateatro": SuperElioGabbaret (Bestiario romano) di Luca Scarlini e Massimo Verdastro

Regia di Laura Angiulli e Massimo Verdastro
di Andrea Balzola

 

 

Roma è innanzitutto una capitale dell’immaginario. Immaginiamo Roma (non è difficile) come una grande, unica scena, dove il tempo stratifica architetture, letterature, echi visivi e sonori, in un declino cominciato con la fine dell’impero romano e mai compiuto, perciò più vitale di altri trionfi; cercando in essa e per essa una guida ideale, non la troveremmo nei ciceroni di professione e nemmeno nei personaggi illustri che l’hanno raccontata, ma in un “clown metafisico”, un portavoce teatrale di memorie private e collettive, un Virgilio novecentesco con lo smoking e il cilindro di Petrolini. Con le sue movenze da burattino vivente, la sua ironia astuta e paradossale, la sua ambiguità androgina, la sua poesia terrena e il suo spirito surreale.

Questa è l’ottima idea che l’attore (premio Ubu 2002) e regista Massimo Verdastro ha scritto, in collaborazione con Luca Scarlini, messo in scena, in collaborazione con la regista Laura Angiulli, e interpretato, da solo, accompagnato dal raffinato arazzo musicale tessuto da Francesca Della Monica (storica e coltissima collaboratrice musicale di Tiezzi-Lombardi). Lo spettacolo è stato presentato in una prima versione al Festival di Benevento del 2003 ed è poi stato elaborato nell’ambito del gruppo napoletano di Galleria Toledo.

Il gioco di parole del titolo dello spettacolo – SuperElioGabbalo – già fornisce la password poetica di un “montage” drammaturgico originale e sofisticato. Eliogabalo, l’imperatore bambino, tiranno folle, eretico  e anarchico, rievocato da Artaud come simbolo dei paradossi del potere e della sua vocazione autodistruttiva, risorto-rivisitato dalla scrittura di Arbasino (con il SuperEliogabalo, inizialmente concepito per un film di e con Carmelo Bene), giunge sulla scena di Galleria Toledo, nella sua ultima contro-figura, nella sua ultima clownesca metamorfosi: l’attore di cabaret e varietà Elio Gabbalo (nome d’arte).

E’ come un lungo percorso dal tragico al comico, dal teatro della storia alla storia del cabaret, luogo novecentesco della mescolanza e della promiscuità di talenti mancati o scovati, di generi e linguaggi, perché il cabaret è asilo di infiniti comici sconosciuti e smarriti, ma anche palestra di formazione dei grandi attori, covo delle rivoluzioni artistiche novecentesche come il Cabaret Voltaire dadaista o i locali-trincea delle serate futuriste.  Regno di anarchici e autarchici imperatori della scena come Petrolini e Totò, i grandi clown metafisici del Novecento italiano.

Il cabaret è anche il luogo dove le memorie personali dell’attore possono infiltrarsi tra le sue maschere, affacciandosi nella passerella dei suoi personaggi.  E’ infatti con sapiente intensità che Verdastro si fa medium di un’incalzante sequenza di apparizioni e sparizioni di fantasmi personali e collettivi. La memoria di un attore che ricorda di aver partecipato ai funerali di Anna Magnani o i suoi incontri con controfigure di attrici famose, come Scilla Gabel, s’intreccia con la Storia (alla Elsa Morante) rievocata attraverso le storie, cioè i racconti di famiglia, in un passaggio impercettibile tra mito e cronaca, fra memoria e immaginazione. E poi, soprattutto, le voci famigliari dei poeti amati che raccontano in frammenti, non sempre noti, una Roma appassionatamente vissuta, in tutte le sue vitali sfaccettature e contraddizioni: Roma meretrice e reduce della storia (Arbasino), ferita a morte dalla guerra (il bombardamento di San Lorenzo descritto da Palazzeschi), o dalla tragica farsa della dittatura fascista (nell’insuperabile sintesi di Gadda), marginale, violenta e assetata di vita (Pasolini), troppo satura di fantasmi (nella poesia di Giorgio Vigolo), fatta parola con il nobile e corrosivo vernacolo del Belli, o teatro, con i surreali funerali di Maria Stuarda riscritti da Petrolini.  I due autori del montaggio testuale hanno cercato e raccolto come segugi poetici un materiale immenso e avvincente di frammenti che non era facile scegliere e ricomporre in un quadro drammaturgico unitario, e che potrebbero generare altre versioni inedite dello stesso spettacolo.

 

 

Lo spettacolo è metamorfosi “eliocentrica”, dove l’attore, illusionista del gesto e della parola, si spoglia progressivamente dei panni sia simbolici sia fisici dei suoi personaggi (e della sua stessa “divisa” da Cabaret), mettendosi a nudo come pura presenza vocale e corporea, diapason emotivo di un percorso sempre più interiore, fatto di corrispondenze talvolta evidenti,  altrove celate, sempre intime, tra le voci poetiche e i brani musicali scelti con  grande sensibilità da Della Monica. Anche il lavoro di regia dello stesso Verdastro e di Laura Angiulli, coadiuvato dalle scene essenziali di Rosario Squillace e dalle luci espressive di Cesare Accetta, è minuzioso, sottile e minimalista, veste l’attore su misura di ogni verso e di ogni gesto, e Verdastro  è davvero bravissimo nell’interpretare una partitura così ricca ma anche così diversa di registri stilistici e di cadenze ritmiche, di stati d’animo, di valori affettivi ed etici.

 

 

SuperElioGabbaret – bestiario romano di Luca Scarlini  e Massimo Verdastro
con Massimo Verdastro

Regia di Laura Angiulli e Massimo Verdastro
Scene di Rosario Squillace

Costumi di Salvatore Forisno

Luci di Cesare Accetta

Progetto musicale di Francesca Della Monica

Direzione tecnica di Antonio Pennarella
Anteprima presso Galleria Toledo di Napoli

 

N.64  (febbraio 2004)

 

Le recensioni di "ateatro": L’asino albino di e con Andrea Cosentino
Regia di Andrea Virgilio Franceschi
di Andrea Balzola

 

Forse qualcuno si ricorda del carcere di "massima sicurezza" situato nell’isola della Sardegna del nord che porta il nome di "Asinara"?
Era in "voga" tra i detenuti considerati più pericolosi degli anni settanta: camorristi, mafiosi e soprattutto terroristi. Un’aura maligna e quasi leggendaria circonda questa isola: ora è area naturale protetta, ma in passato ha ospitato un Lazzaretto per la quarantena dei malati infettivi, poi trasformato nella prima guerra mondiale in un campo di concentramento, dove sono morti ben settemila prigionieri austro-ungarici. Infine, ed è storia ancora recente, il supercarcere "Fornelli". Simbolo dell’isola è un fantomatico "asino albino", specie endemica in via d’estinzione e dalle origini misteriose. A questo luogo accedono oggi solo gite turistiche guidate, a visitare le terribili vestigia di quel passato e soprattutto la bellezza naturale delle spiagge e del mare. Il giovane attore e autore Andrea Cosentino (con una ricca ed eclettica formazione teatrale, che va dal Living a Marisa Fabbri e Dario Fo, da Manfredini ai poeti improvvisatori toscani e si specializza a Parigi nel teatro comico e gestuale della scuola di Philippe Gaulier e Monika Pagneux) ricrea appunto una di queste gite, moltiplicandosi in una quindicina di personaggi emblematici, su una scena spoglia, circolare, abitata soltanto da pochi oggetti utili alla caratterizzazione dei personaggi: occhiali da sole, un telefonino, cappellini, un pupazzo di plastica gonfiabile, un megafono...
In questo debutto, sia pure ancora in fase di rodaggio, Cosentino si conferma un virtuoso della metamorfosi (aveva già interpretato da solo tutti i personaggi dell’Andromaca di Euripide) e una personalità emergente di originale spessore nel panorama dei nostri monologanti attori-autori. Il tono iniziale con cui presenta i suoi personaggi e l’arrivo della comitiva turistica sull’isola è quasi da cabaret, per quanto già da subito incline al paradosso e allo humour amaro. Poi, poco alla volta, insieme alla moltiplicazione dei personaggi, si assiste alla moltiplicazione e alla stratificazione dei registri espressivi. Il comico si apre al drammatico, quando Cosentino racconta delle migliaia di prigionieri morti in uno dei più dimenticati campi di concentramento, oppure quando fa rivivere, riprendendo frammenti di una testimonianza autentica, il progetto fallito di evasione e la rivolta dei brigatisti rinchiusi nel supercarcere. O ancora, quando l’unico asino albino visibile dell’isola è un cadavere, forse ucciso dai raggi solari non più filtrati dall’ozono. I personaggi sono tipici dell’italietta turistica, con efficaci marcature gestuali e vocali: oltre all’imperturbabile guida sarda, il coatto romano esistenzialista con la fidanzata remissiva, l’ignorante pontificatore, i due amici ossessionati dal cellulare, la single in crisi, il milanese berlusconiano con la famiglia, la coppia omosessuale italo-inglese occupata soltanto ad abbronzarsi, il babbo pugliese con la figlioletta pestifera. Aleggiano spietati (però mai diretti) riferimenti ai finti esuli delle televisive "isole dei famosi", ultima spiaggia per l’omologazione seriale di qualsiasi emozione. Un campionario di maschere dove la parodia dello stereotipo, sempre più dilagante nella nostrana popolazione telecomandata, non si limita però alla facile caricatura, ma apre un sottotesto metafisico, costellato di interrogativi filosofici ed esistenziali portati a paradossi mai banali (incentrati soprattutto sul tema del tempo). E alcuni personaggi, anche tra i più rozzi, acquisiscono così una dimensione poetica originale, tanto più sorprendente in quanto inconsapevole. Questa capacità di visione epifanica è sostenuta da un sottotesto politico, o quanto meno etico: la desolazione di quest’isola, dove la bellezza della natura è schiacciata dai fantasmi di una memoria insopportabile, riflette metaforicamente la desolazione di un’umanità allegramente alla deriva. Turisti naufraghi di un viaggio mancato nella memoria storica, anche la più recente, e incapaci di essere all’altezza di aspirazioni autentiche, non clonate, perché ormai privi sia di radici culturali che di utopie, anche le più piccole e personali. "Va tutto bene", ripeteva ossessivamente il comico Albanese, duplicando lo slogan dominante dell’attuale via italiana alla bancarotta morale e culturale (economica pure). L’isola è una specie di paese dei balocchi, dove ci si trasforma in asini. Ed infatti, la storia di Pinocchio che diventa asino è raccontata dal babbo alla figlioletta, in modo frammentario e ripetuto per l’intero arco dello spettacolo, nel vano tentativo di tenerla tranquilla. Una bimba annoiata dal padre e intestardita solo nel desiderio di vedere l’asino bianco, pubblicizzato sul depliant turistico. E’ questo un ulteriore registro metaforico di notevole forza espressiva (anche per il gioco linguistico con cui il testo è elaborato). Collodi, e prima di lui Apuleio, rappresentavano nella trasformazione in asino del protagonista l’interruzione e lo scacco della crescita spirituale, che coincide per Pinocchio con la perdita della parola, di quel logos che per i filosofi greci cercava e fondava il senso stesso dell’esistenza umana. Oggi quella trasformazione è metafora di una parola che perde la facoltà di dire e che non accoglie nemmeno il silenzio della riflessione, restando parola ininterrotta e vana che sfila, esibita, come il Pinocchio-asino nel circo (oggi sarebbe il set televisivo).
Perciò il finale dello spettacolo non poteva essere più riuscito: prima una progressiva e assoluta spogliazione della scena, dei personaggi e delle parole, poi, finalmente, l’apparizione, in un controluce abbagliante e metafisico, dell’attore trasfigurato (qui d’inquietante bravura) nel tanto atteso asino bianco, che saluta gitanti e pubblico con un prolungato e disperato raglio di dolore.

L’asino albino di e con Andrea Cosentino
Regia di Andrea Virgilio Franceschi
Collaborazione artistica di Valentina Giacchetti
Scene di Ivan Medici
Anteprima presso il rialtosantambrogio di Roma

 

-------------------------------------------------------------------------------------------Le notizie di ateatro

 

 

ateatro 63.97

03/02/2004 
Debutta a Prato Storie mandaliche 2.0
Dal 6 all'8 febbraio la narr'azione ipertestuale & multimediale con Giacomo Verde
di Redazione ateatro
 

Debutta il 6 febbraio a Prato Storie mandaliche, un lavoro di cui ateatro ha seguito la gestazione.
Storie Mandaliche 2.0 è uno spettacolo di narrazione, con video-fondali interattivi, composto da 7 storie collegate tra loro: l'uomo-bambino; il mandorlo; la principessa nera; il corvo; il cane bianco; la pietra; l'ermafrodito. Gli iper racconti di Andrea Balzola sono narrati dal "cyber-cantastorie" Giacomo Verde.
Il protagonista di ogni storia appare come personaggio anche in tutte le altre. L'idea è che sfruttando le potenzialità ipertestuali della scrittura digitale ogni sera uno spettatore possa decidere da quale storia iniziare lo spettacolo, mentre lo svolgimento della narrazione sarà determinato dal tipo di "umore" della platea, che potrà indicare (dialogando con il narratore) che direzione seguire in corrispondenza di ogni bivio ipertestuale.



Nella foto, i bellissimi autori di Storie mandaliche: da sinistra Lupone, Monteverdi, Balzola, il cyber-cantastorie Verde, Giuntoni e Paolini.

Il termine "Mandala" significa in sanscrito "cerchio magico" o "mistico" ed è, secondo Jung, il simbolo della meta del Sé come totalità psichica. Le rappresentazioni a forma mandalica sono archetipi universali e sorgono nell'attività onirica e immaginaria per lo più in situazioni caratterizzate da disorientamenti e perplessità, stati d'animo tipici di questo periodo segnato anche da mutazioni tecnologiche che mettono continuamente in discussione il senso della propria identità.
Le Storie Mandaliche che Giacomo Verde racconta, parlano appunto di questo: di esseri e sentimenti in trasformazione.
La realizzazione di Storie Mandaliche è iniziata nel luglio del '98 durante il Festival teatrale "Scantafavole" di Ripatransone (AP), nel corso di un laboratorio aperto al pubblico, e il suo allestimento e' continuato attraverso altri incontri laboratoriali e prove aperte.
La nuova versione abbandona il sistema "Mandala System" per passare all'uso di FlashMX, in modo che i fondali interattivi, utilizzati dal cyber-contastorie, possano essere navigabili anche in Internet per dare cosi' un ulteriore sviluppo in rete della narrazione teatrale in sala. I nuovi video-fondali sono stati rielaborati durante il corso di Computer Art del Corso Multimediale dell'Accademia di Belle Arti di Carrara. Il lavoro di allestimento è seguito da Anna Maria Monteverdi, che sta curando con Andrea Balzola e con la collaborazione degli autori dello spettacolo, un testo-diario con allegato CD-rom. Il libro illustrerà le modalita' di scrittura e messinscena sperimentate durante la realizzazione di questa nuova forma di tecno-narrazione ed è in corso di stampa per la casa editrice Nistri Lischi di Pisa.

INFO:
www.zonegemma.org
www.xear.org/storiemandaliche
zonegemma@zonegemma.org / zonegemma@tin.it

Altre info e riflessioni sullo spettacolo le trovi in

Storie mandaliche 2.0 di Andrea Balzola e Giacomo Verde a Castiglioncello
Verso una narrazione ipertestuale
di Anna Maria Monteverdi

Raccontare non è recitare
Un mail durante le prove di Storie mandaliche
di Giacomo Verde

Un teatro mandalico
Un mail a Giacomo Verde, Andrea Balzola & Co.
di Oliviero Ponte di Pino

L'ipertesto mandalico
Un mail a Oliviero Ponte di Pino
di Andrea Balzola

LA SCHEDA

zoneGemma-Xear.org
Armunia Festival Costa degli Etruschi
presentano

Giacomo Verde
in
STORIE MANDALICHE 2.0
iper-racconti della trasformazione
di Andrea Balzola e Giacomo Verde

Iper-racconti > Andrea Balzola
Sonorizz'azioni interattive > Mauro Lupone
Elaborazioni finali FlashMX > Lucia Paolini
(con la collaborazione degli studenti del Corso Multimediale
Accademia di Belle Arti di Carrara)
Assistenza operativa > Valentina Guastini
Comunicazione > Melanie Gliozzi
Segnal'azioni > Anna Maria Monteverdi
Narr'azione e Direzione > Giacomo Verde

PRIMA NAZIONALE a
PRATO
Teatro Fabbrichino
via Targetti (accanto al Teatro Fabbricone)
ven 6 – sab 7 – dom 8 Febbraio 2004
ore 21:00

zoneGemma
laboratorio teatrale nomade di cultura biotecnologica
via del fosso 164, 55100 Lucca IT
tel. 0583 469682 - cell. 0338 7290014
http://www.zonegemma.org

 

 

N.61 (22.12.03)

 

Carmelo Bene: lo specchio mutante di Narciso
L'Otello televisivo tra Artaud e Deleuze
di Andrea Balzola

 

Premessa artaudiana: l’attore Eliogabalo
In occasione del centenario di Artaud, il Teatro di Roma diretto da Ronconi aveva organizzato un convegno in cui metteva a confronto il Maestro francese con Carmelo Bene, una delle sue più eccellenti "disincarnazioni" teatrali. Tema unificante dell’incontro non poteva non essere la fine, l’infarto definitivo del "teatro di rappresentazione" teorizzato da Artaud e mostrato da Bene. Purtroppo le stagioni teatrali che dominano i cartelloni italiani attuali continuano a ignorare felicemente che Artaud e Bene siano mai esistiti, ma tant’è, i morti e i geni si celebrano, non si studiano e non s’interrogano. Sarebbe troppo scomodo e affaticante. La differenza tra Artaud e Bene è la complementarità tra Pieno e Vuoto, se il primo teorizzava per eccesso, il secondo agiva per difetto, per sottrazione, se Artaud voleva un palcoscenico saturo e un attore posseduto da una trance cosmica, Bene svuotava la scena e riduceva il suo corpo a "macchina attoriale", inefficace e inefficiente, attraversata e scossa da significanti impersonali. Carmelo reclamava "un teatro senza spettacolo", una tragicomica ironia del niente.
Ma dove inizia la fine del teatro? Probabilmente fin dal suo primo vagito, perché la scena è il non luogo per eccellenza, prima spazio sacro dove si celebrava ritualmente il divino, cioè l’invisibile, l’inudibile, l’ineffabile, ciò che – per dirla con Carmelo – ci manca; poi spazio profano dove tutto è possibile e nello stesso tempo impossibile, in quanto nulla a teatro è vero se non la finzione stessa. Lo sappiamo fin da bambini, ciò che accade a teatro appare senza essere. Questo il suo paradosso essenziale, questa mancanza d’essere la sua più profonda ragion d’essere. La scena non ha una natura propria, è e rimane vuota, anche se momentaneamente riempita di oggetti, décor e soggetti. Così l’attore, che è "vanitoso" (cioè, etimologicamente, vuoto), attraversato e/o posseduto dalle maschere e dai personaggi nel teatro classico e borghese, dalle energie e dai significanti nel teatro post-artaudiano. In questo senso il grande attore non rappresenta l’eroe tragico, è egli stesso il vero eroe tragi-comico, in quanto nella sua vanità rivela al mortale suo simile l’illusione dell’io. Un eroe moderno, come suggeriva Lacan, "è colui che compie imprese derisorie in situazioni di smarrimento". E sono proprio queste "imprese" che Carmelo ripeteva allo sfinimento in ogni sua apparizione, derubando come prestanomi illustri, nobili controfigure, gli eroi più emblematici e problematici di Shakespeare, sbranandoli (letteralmente: riducendoli a brani) con feroce crudeltà artaudiana e con lacaniana chirurgia ironico-analitica. Come l’Eliogabalo di Artaud, l’attore Bene si dichiarava contento di essere fatto a pezzi, ed è forse questo il principale anello di congiunzione tra lui e l’autore francese, fare a pezzi la lingua e il testo affinché possa emergere "la parola prima delle parole", la voce di un’energia primaria capace di svellere i generi e i codici per rianimare il corpo imbalsamato e scuotere la mente opaca dell’attore e del pubblico, eliminare le mediazioni interpretative, concettuali ed ideologiche, spogliare il corpo dei suoi organi attraverso l’anarchia del comico e la follia dell’estasi.



Un'immagine dell'Otello o la deficienza della donna di Carmelo Bene nella versione teatrale.

Lo specchio elettronico di Narciso
Quando incontrai Carmelo sul set dell’Otello televisivo, nel 1979, mi fece subito una domanda, mi chiese se avevo letto Differenza e ripetizione di Deleuze, per lui il libro più importante. Superato il test, iniziò il dialogo e potei seguire le riprese dell’Otello. Sicuramente una delle esperienze da spettatore più straordinarie, perché vedevo nascere sotto i miei occhi un linguaggio. Bene azzerava l’uso ordinario del mezzo televisivo e ripartiva da zero. Ripensava da zero anche la versione teatrale che era all’origine della trascrizione televisiva. Agiva per sottrazione, cancellava le scenografie, aboliva campi medi, campi e controcampi, saturava i contrasti cromatici abolendo i toni intermedi, facendo pittura elettronica, riduceva al minimo movimenti e azioni degli attori, incollava l’inquadratura fissa ai primi piani.
Com’è noto, la scena dell’Otello di Bene era un fazzo-letto, su cui si consumava il dissolvimento del protagonista nelle sue ossessioni. C’era una specularità tra il quadrato di quel letto-fazzoletto-prigione e lo schermo video. Il paesaggio del volto dilagava sui resti di una scena smobilitata. Mi impressionava, vedendolo da vicino, sul set e fuori dal set, la metamorfosi costante di un volto che nell’arco di pochi secondi poteva tornare bambino o diventare anziano. Bene usava il monitor di controllo per modulare il suo volto mutante, si specchiava nel monitor per ri-creare l’incantesimo narcisista dell’attore nel personaggio. La voce, spesso in play-back gli serviva come Eco, come una modulazione vocale che trasportava la modulazione mimica. Carmelo era entrato nel recinto televisivo lasciato temporaneamente aperto dalla riforma Rai, come un esploratore nella foresta elettronica.
Dopo aver messo a soqquadro il cinema, e la radio, occupava gli ordinati studi televisivi per dimostrare – prima di tutto ai tecnici che lo assistevano perplessi – che la televisione, oltre ad essere un elettrodomestico, come diceva Eduardo, poteva essere un linguaggio, trasmettere una poetica d’autore. In particolare, la televisione poteva rivelare ciò che a teatro non era visibile e che al cinema era fuori misura: l’estetica del primo e del primissimo piano (assai più tardi lo hanno imparato anche i professionisti della televisione), lo schermo video specchiava in modo inedito il paesaggio mutevole del volto, induceva l’attore stesso a scoprire come una faccia possa sostituire una scena, perché già essa stessa è una scena. Ed è qui che Carmelo, grazie a questa esperienza televisiva, dispiega pienamente la sua ridefinizione poetica del mito di Narciso, non come contenuto dell’opera ma come modalità della macchina attoriale.
Così Carmelo Bene riconduceva al grande attore il mito di Narciso, dichiarandolo in modo esplicito in uno dei suoi scritti teorici più importanti: La voce di Narciso. Cresciuto nell’intramontabile tradizione italiana dell’attore mattatore, Carmelo ne indossa i panni per farlo inciampare in un cortocircuito, ne riproduce l’enfasi del gesto e della re-citazione, per smontarla dall’interno: il grande attore catturato dallo specchio si disfa progressivamente degli organi del corpo e della parola, diventa un unico volto assoluto che vive del suo riflesso. Carmelo diceva sempre che agli incontri televisivi, veri e propri ring del paradosso, lui mandava la sua controfigura, e i suoi primi piani ce lo confermavano: ci facevano vedere il suo volto mutante, ostentatamente truccato e artefatto nelle espressioni, più attore che sulla scena. Non c’era infatti alcuna soluzione di continuità tra la sua "assenza" teatrale e la sua "assenza" pubblica, Narciso non distoglieva mai lo sguardo dallo specchio (Lydia Mancinelli mi ha poi confermato che Carmelo era ossessivamente attratto dagli specchi), e se per un attimo ne era distratto, subito vi ritornava.
L’incantesimo narcisistico presuppone la coazione a ripetere, se Narciso distoglie il volto dallo specchio non può resistere, torna a guardarsi. Ma si rivede ogni volta più limpidamente perché lo sguardo scava ogni dettaglio, si rivede ogni volta diverso perché il volto non cessa di trasformarsi. La ripetizione concentra, pulisce, spoglia, porta all’essenziale, si dice dei grandi poeti che abbiano la vocazione al silenzio, ma per raggiungere, per meritare, quel silenzio devono trascorrere la loro esistenza – come Campana o Hölderlin – nell’ossessione del verso, verso che prima è incantesimo di un suono e poi diventa indice di una direzione: verso il silenzio. Perciò Carmelo insisteva sul rigore e citava Schopenauer: "il talento fa ciò che vuole, il genio solo ciò che può". L’ossessione percorre una linea di necessità, si fonda sulla ripetizione del gesto e dell’emissione e sulle differenze che quella accanita ripetizione produce. Bene ritornava sempre con gli stessi fantasmi, i suoi doppi, Amleto, Otello, Macbeth, Riccardo III, Pinocchio, ogni volta più immobili, afasici, denudati, svogliati, su una scena sempre più vuota. Per questo Bene trovava in Deleuze il suo mentore, Deleuze che in quel meno noto e bellissimo saggio Marcel Proust e i segni (1967), scriveva: " Che altro si può fare dell’essenza, differenza ultima, se non ripeterla, dal momento che non ha surrogati e nulla può venirle sostituito?... Differenza e ripetizione si oppongono soltanto in apparenza. Non vi è grande artista, la cui opera non ci spinga a dire:Lo stesso, eppure altro’... In verità, differenza e ripetizione rappresentano le due potenze dell’essenza, inseparabili e correlative. Un artista non invecchia col ripetersi, perché la ripetizione è potenza della differenza, così come la differenza è potere della ripetizione."
Lo specchio di Narciso non duplica soltanto, moltiplica. Bene pensava al testo stesso come uno specchio dell’autore che si frantuma in una molteplicità di identità, che il drammaturgo chiama personaggi, così l’intera fabula drammaturgica si rivela come una proiezione interiore dei volti dell’autore, e a questi volti si sovrappone quello dell’attore. I personaggi diventano così i doppi incarnati di un doppio protagonista, che è l’autore e l’attore insieme, dove i ruoli maschili e femminili s’invertono o si mescolano, maschere prive di un’identità certa, satelliti di una voce molteplice ed insieme unica che istericamente testimonia la propria afasia. Essendo interiore il testo infatti non può essere detto, diviene irrappresentabile e si dà soltanto per frammenti, indizi, rivelando parodicamente l’irriducibilità di qualsiasi testo profondo alla scena della parola, all’ordine del discorso. Il testo da rappresentare si trasforma in un pretesto per dichiarare l’impossibilità, il fallimento, ironico e patetico, della rappresentazione. Ma questa parola interdetta non è un insensato vicolo cieco, frantumandosi diventa balbuziente od ossessiva, tenta di liberarsi in phoné, verso, suono e canto. Come uno specchio che riflettendone un altro, si moltiplica all’infinito, la finitezza dell’attore portata ossessivamente allo sfinimento dei propri limiti si apre all’infinito. E ricrea il mito, anche a costo della vita. Narciso si addormenta dentro il suo volto e sogna di morire, mentre la scena vuota attende il risveglio del pubblico.

Roma, ottobre 2002

Otello di Carmelo Bene (1979-2001, Italia, 70', Betacam SP) è stato girato negli studi Rai di Torino nel 1979 e finalmente montato nel 2001, come produzione RaiEducational, da Marilena Foglietti, aiuto regista d'allora di Bene, in conformità alle indicazioni del Maestro. Dopo la morte di Carmelo Bene, Otello è stato presentato al Teatro Argentina e al Torino Film Festival e trasmesso da RAI 3.

I links
Un frammento dell'Otello di Carmelo Bene in video streaming sul sito Rai.

Speciale Carmelo Bene su Close-Up

N.58 (5.10.03)

Le recensioni di "ateatro": Le Dernier Caravanserrail
regia di Ariane Mnouchkine, Théâtre du Soleil
di Andrea Balzola

 

L’inestinguibile ondata migratoria di profughi e disperati d’ogni continente, che si riversa ormai da molti anni sul territorio privilegiato della vecchia Europa, ha invaso ormai anche le scene di molti gruppi e registi teatrali, sensibili più dei governi all’odissea di questa gente di tutte le etnie e le età. Da Marco Baliani alle Albe (bianche e nere) di Ravenna, da Peter Sellars a César Brie, diversi autori e registi s’interrogano su un fenomeno che destabilizza radicalmente, irreversibilmente, i fragili equilibri della convivenza tra i popoli, le culture e le lingue. Tra questi non poteva mancare Ariane Mnouchkine e il Théâtre du Soleil, fin dalle sue origini avamposto di un teatro concepito come laboratorio di riflessione e impegno civile, mai subalterno ma nemmeno distaccato rispetto alle problematiche sociali e politiche della contemporaneità. Com’è sua consuetudine, ma forse più che in altre occasioni, il lavoro della Mnouchkine sul tema dell’immigrazione è un lavoro di lunga durata e di ampio respiro. L’idea portante è quella di far raccontare ai rifugiati (per guerra, persecuzione o per fame) ciò che accadeva nei loro paesi d’origine e quale causa li ha spinti ad affrontare l’odissea della fuga verso l’Europa. Infatti, quando noi vediamo i volti di questa gente, nelle immagini televisive o per strada, tutto pare confondersi in una massa indifferenziata, nella quale fatichiamo a distinguere nazionalità ed etnie. Eppure dietro a ciascuno di quei volti c’è una storia individuale e unica, spesso terribile, maturata all’interno di una tragedia collettiva, una storia che raramente può essere raccontata e che forse pochi vogliono ascoltare. La Mnouchkine e i suoi collaboratori danno voci e figure proprio a queste storie, nella loro lingua originaria (tradotta mediante i sottotitoli elettronici) e con una folta e affiatatissima schiera di interpreti che vengono da ogni parte del mondo. Poiché queste storie sono moltissime, quasi infinite, potremmo dire una sorta di nuovo patrimonio orale della civiltà (e soprattutto dell’inciviltà) del secondo millennio, la Mnouchkine ha voluto raccogliere quanto più materiale possibile dalle testimonianze dirette dei rifugiati, in forma scritta e verbale, dividendolo per aree geografiche di provenienza. Poi ha selezionato i materiali più emblematici, per ricavare da questi dei brevi episodi teatrali che possono essere rappresentati in modo autonomo oppure concatenato fra loro, come miniserie a puntate. L’insieme di tutti i "racconti" rappresentabili raggiunge il numero di cento (come i canti di un poema epico), per ogni replica, della durata media di tre ore, vengono scelti una ventina di episodi, secondo differenti combinazioni, in modo tale che lo spettacolo non è mai rappresentato per intero (lo spettacolo con tutti gli episodi durerebbe più di quindici ore) e ogni volta "viaggia" tra vicende e luoghi diversi. Molta parte di questi racconti sono stati raccolti nel campo profughi di Sangatte, nel nord della Francia, uno dei "luoghi" principali in cui sono ambientati gli episodi teatrali, insieme alle terre di confine come Calais o di passaggio come la Grecia, l’Oceano Indiano, gli altri "luoghi" sono soprattutto quelli delle recenti guerre, l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq, la Bosnia e poi l’est europeo disfatto dalla miseria: Mosca, la Bulgaria, l’Albania. Lo spettacolo ha un inizio straordinario e simbolico: gli attori, che di volta in volta si trasformano in macchinisti al servizio dei loro compagni di scena, corrono sul grande palcoscenico dispiegando su di esso un enorme telo grigio e agitandolo come un fiume arrabbiato, la colonna sonora (tutta rigorosamente dal vivo) fa soffiare il vento e scrosciare l’acqua mentre due "guide" mercenarie di un gruppo di profughi afgani cercano avventurosamente di far passare i loro "clienti" da una sponda all’altra del fiume, sospesi a una corda. Questo quadro, così dichiaratamente finto nella sua invenzione teatrale eppure così vero nel pathos che comunica, introduce subito alla dimensione poetica del grande racconto, dove i singoli, brevi e fulminanti episodi si alternano a frammenti di lettere scritti (elettronicamente) sul fondale e letti nella loro lingua originale. Continuamente, per tutto lo spettacolo, gli attori, vestiti negli abiti tradizionali delle varie etnie oppure nelle "divise" (tute o abiti recuperati) da profughi, attraversano la scena correndo, non è dato sapere da dove vengano e dove vadano, sono anime perennemente in fuga, perennemente alla ricerca di una terra. I personaggi protagonisti degli episodi si muovono invece in scena sempre ed esclusivamente su piccole pedane mobili (come rudimentali skateboard), abilmente manovrate da altri attori. Come per evocare il passaggio veloce ed effimero sulla terra, fantasmi in carne ed ossa che scivolano sulla superficie della terra, senza lasciare traccia, senza potersi radicare, irreversibilmente staccati da un suolo di appartenenza. Così appaiono e scompaiono anche alberelli veri, sinonimo di speranza o di disperazione. Questa è senz’altro una delle idee registiche più forti dello spettacolo, che si coniuga con un’analoga soluzione adottata per le scene: il palcoscenico rimane sempre vuoto, è solo provvisoriamente occupato da piccole scene mobili (anch’esse su ruote, trasportate dagli attori-macchinisti) che sono frammenti di spazi, così come i dialoghi sono frammenti di storie. Un palo del traliccio della luce, una baracca afgana, un container per profughi, un gabbiotto della croce rossa, una cabina telefonica, una fermata di autobus, un pezzo di rete di confine divelta per il passaggio dei clandestini..., la scenografia è metonimica, una parte che evoca il tutto e lo riduce alla sua essenza, come un quadro tridimensionale o una scultura-installazione. Queste scene così leggere avanzano e arretrano, ruotano su se stesse, offrendo allo spettatore diversi punti di vista e spiazzanti sorprese. Tutto, la presenza umana, la sua voce, il suo ambiente naturale o domestico, appare e svanisce come sospinto da un soffio di vento. E su tutto prevalgono una crudeltà e una spietatezza che sembrano tanto inesorabili quanto insensate, come "se Satana si fosse seduto sulla nostra tavola" (lo dice un’ intensa poesia proiettata sul fondale). Insieme alle vittime innocenti, le donne e i bambini, anche i carnefici risultano a loro volta vittime dei concorrenti, ma più ancora sembrano vite perdute nell’accecamento prodotto dalle nuove divinità pagane del denaro, dai signori della guerra o dagli imperituri fanatismi "religiosi". E’ un’odissea senza eroi e senza ritorno, che tende piuttosto all’apocalisse, un affresco animato di grande forza comunicativa, dove la complessa machina teatrale di questa famiglia molto numerosa che è il Théâtre du Soleil funziona perfettamente, con un rigore raro per le scene nostrane. Qui la limpida sobrietà e la disinvoltura degli attori, sempre bravissimi (li vediamo truccarsi ed entrare nei personaggi a lato della platea, li vediamo trasformarsi in atleti e macchinisti a seconda delle necessità del momento), esalta i valori poetici e drammatici della messinscena, evitando sia il mimetismo naturalista sia qualsiasi ombra patetica o retorica. Uno spettacolo "antispettacolare" che apre le finestre della nostra indifferenza o della nostra assuefazione al dolore altrui per farci vedere e sentire, quasi toccare con mano, quanto costa oggi per molti uomini, donne e bambini la sopravvivenza, non solo del corpo ma anche dell’identità culturale e della dignità umana.


 


 

 

Le recensioni di "ateatro": La casa degli spiriti dal romanzo di Isabel Allende
regia di Claudia Della Seta, Teatro Arabo Ebraico di Jaffa e Compagnia Teatrale Integrata Diverse Abilità di Roma
di Andrea Balzola

 

Nella selezione del festival "Enzimi", e subito dopo al Teatro dell’Orologio, ha debuttato una originale versione teatrale del romanzo best seller La casa degli spiriti di Isabel Allende. La fortunata saga famigliare cilena, già vista in una discussa riduzione cinematografica, ha una struttura narrativa molto canonica e piuttosto meccanica, nobilitata da una tematica politica di fondo che parte dallo sfruttamento latifondista dei contadini fino alle efferatezze del golpe e della dittatura sanguinaria di Pinochet, con un tentativo finale di indicare nell’arduo ritorno alla democrazia una possibile strada verso la riconciliazione nazionale. Ed è proprio su questo sottotesto che lo spettacolo mette l’accento, attraverso l’adattamento di Claudia Della Seta, anche regista, e di Nili Agassi, con la supervisione di Daniel Horowitz. Sia nella costruzione dei personaggi, sia nella chiave psicologica del racconto è il punto di vista femminile a prevalere, e quest’impostazione, tipica della scrittura della Allende, viene conservata ed esaltata dalla messinscena. Il progetto nasce infatti dall’incontro tra due registe, Claudia Della Seta e Glenda Sevald, e dalla collaborazione tra due compagnie: il Teatro Arabo Ebraico di Jaffa e la Compagnia Teatrale Integrata Diverse Abilità di Roma. Due compagnie con alle spalle una storia di forte impegno civile, la prima agisce nel difficilissimo contesto attuale israeliano, cercando un’integrazione artistica e culturale tra la comunità ebraica e quella palestinese, la seconda da molti anni conduce un lavoro laboratoriale di grande rigore per il sostegno e l’integrazione dei soggetti disabili o in condizioni di disagio mentale. Questo lavoro teatrale è nato proprio a Tel Aviv, durante i mesi più duri, nel periodo di Jenin e dei quotidiani attentati in Israele, dove la tematica della riconciliazione appariva tanto più utopistica quanto più necessaria. I caratteri dominanti dell’adattamento teatrale e della sua messinscena sono sostanzialmente tre: l’incontro interculturale tra attori e tecnici israeliani e italiani, in prevalenza giovani; l’idea di creare una narrazione a flash-back dove nipote ex-rivoluzionaria e nonno ex-reazionario si ritrovano nella vecchia casa di famiglia per tentare una riconciliazione che passa soprattutto attraverso la rievocazione e il racconto della storia famigliare; la ricostruzione degli episodi salienti della vita famigliare in un innesto cronologico che apre le porte della cucina, dove si trovano i due "narratori", agli altri ambienti animati dai fantasmi (appunto gli "spiriti") del passato. Lo spettacolo, diviso in tre atti, ha una durata complessiva di tre ore e mezza, una lunghezza impegnativa per pubblico e attori che potrebbe essere ridotta tra il secondo e il terzo atto, ma che regge l’attenzione e il coinvolgimento emotivo grazie al ritmo serrato degli episodi, creato dall’efficace regia e alla buona prestazione degli attori. Quelli stranieri sanno volgere a loro favore le difficoltà della pronuncia, sfumando con il loro accento il pericolo accademico che incombe su molta "corretta dizione" dell’attore medio impostato italiano. Per aumentare la disinvoltura "casalinga" dei due narratori, sempre presenti in scena, la regia sceglie di far muovere il vecchio Esteban (Maurizio Marchetti) sulla carrozzella e di mettere ai fornelli la nipote Alba (Maria Serrao), la quale cucina per davvero piatti semplici poi serviti al pubblico negli intervalli. Ai due lati della cucina appaiono i differenti ambienti e i personaggi di tre generazioni (il passaggio dell’età dei protagonisti è sottolineato dal cambiamento di attori), dal vivo, o, nelle scene più dure, mediante il gioco delle ombre cinesi, o infine, al momento del golpe, con la proiezione di documenti video originali. Forse sarebbe stato drammaturgicamente più interessante, anche se più difficile, mescolare i diversi momenti temporali evocati dalla memoria dei narratori, invece di rispettare strettamente la cronologia, anche perché la memoria non è mai lineare, procede appunto per salti e associazioni spesso imprevedibili. In ogni caso, il delicato equilibrio tra la dimensione tragica, sicuramente dominante, e la vena ironica è ben calibrato nel naturalismo lievemente caricato della recitazione, soprattutto in alcuni personaggi come la sorella del patriarca, Férula (la brava Barbara Porta), Esteban il giovane (un vigoroso Stefano Viali) Blanca (la versatile Sofia Diaz) e Clara, moglie sensitiva di Esteban, il personaggio più sfaccettato e amabile (interpretata nelle tre età della vita dalle brave e belle Tamara Stiel, Mira Anwar Awad, Alba Caterina Rohrwacher).

 

 

N.57 (14.09.03)

Un teatro mandalico
Un mail a Giacomo Verde, Andrea Balzola & Co.
di Oliviero Ponte di Pino

 

«Come possiamo distinguere tra le tecnologie che sono essenzialmente estensioni, accelerazioni, anche se spettacolari, di mezzi già esistenti - come fu la stampa a caratteri mobili - e quelle che costituiscono un "salto quantico" e aprono nuovi orizzonti su un ordine diverso da qualunque altro precedente?»
(George Steiner, Grammatiche della creazione, Garzanti, 2003, p. 269)




Il logo di Storie mandaliche, con link al sito dello spettacolo.

Storie mandaliche 2.0 (che ho visto al Castello Pasquini di Castigliocello il 29 agosto, in una prova aperta) mi ha incuriosito & interessato, per due motivi. In primo luogo perché mi sembra che stiate lavorando sui confini del teatro (e non solo del teatro, ma anche della tecnologia e del racconto) per spostarli un poco più in là. E (secondo) perché lo fate lavorando su uno snodo chiave come il rapporto tra la narrazione e l’icona (con la mediazione del corpo), che mi sembra uno dei temi centrali di questi tempi.
Dal punto di vista della narrazione, è subito chiaro il superamento di un percorso unico e sequenziale (la forma classica del racconto, con un inizio e una fine predeterminati), a favore di una struttura a rete, più complessa e articolata. Non esiste un unico percorso predestinato (anche se nelle singole storie ciascun personaggio segue il filo del proprio, mi pare: non credo che il Ragazzo, per esempio, possa scegliere se amare la sua Principessa), ma una moltitudine di percorsi possibili, ogni sera diversi. Così ogni replica lo spettacolo è radicalmente diverso e non esaurisce la totalità delle storie. Siamo dunque più vicini al videogame - con i suoi sentieri biforcati e le scelte che impongono a ogni bivio o incontro - che a un romanzo o a un testo teatrale.



In Tibet, per insegnare ai bambini a utilizzare i Mandala, li fanno percorrere con delle pedine come se fosse una sorta di gioco dell’oca: seguendo un percorso determinato dal caso (dal lancio di un dado, per esempio), imparano il significato dei diversi luoghi e al tempo stesso ripercorrono nel microcosmo lo schema del macrocosmo.
In Storie mandaliche il coinvolgimento interattivo del pubblico (di volta in volta attraverso le indicazioni di un singolo spettatore) è un elemento essenziale. Evidenzia e rende palpabile l’esistenza dei link - gli incroci e le biforcazioni. Peraltro questo metodo di scelta, né predeterminata né casuale, riflette la logica complessiva del lavoro: la decisione di imboccare una strada piuttosto che un’altra dipende dalle affinità-curiosità-associazioni dello spettatore con il suo personaggio, ovvero con il simbolo che rappresenta (la Pietra, il Mandorlo, il Ragazzo, il Cane...). Lo spettatore sceglie, ma in qualche modo viene scelto dalla storia.
Ovviamente il modello letterario per un’opera di questo genere è Italo Calvino, che non a caso accoppiava alla ricerca sulle possibilità combinatorie della letteratura quella sulle sue radici antiche e profonde (la fiaba, il mito...), con le regolarità strutturali delle loro figure e dei relativi intrecci.
Come in Calvino, una struttura narrativa non lineare si contrappone implicitamente all’idea di storia come progresso unidirezionale, che cattura le molteplici sfaccettature del reale per ricondurle a un destino unitario. Per lo «scientifico» Calvino l’alternativa a questa narrazione unidimensionale divenne quella della «narrativa come processo combinatorio»: un meccanismo per esplorare ed esaurire «matematicamente» (e dunque «disumanizzando» la macchina narrativa) tutti i possibili stati della realtà (del racconto). I «navigatori» Verde & Balzola, invece, per catturare la molteplicità del reale aprendosi alla bidimensionalità e utilizzano la rete, inserendo - come si è detto - il principio della scelta: il racconto si muove su due dimensioni incrociando altri racconti (la terza dimensione, se si vuole usare questa metafora, nascerebbe dalla possibilità di scelta dei singoli personaggi della fabula: se per esempio il Ragazzo potesse scegliere se innamorarsi della Principessa o no, scegliendo dunque di entrare in uno dei due mondi paralleli, quello dove ama e quello dove non ama...).
E’ una scelta con evidenti implicazioni ideologiche: la rete pare oggi anche l’alternativa a un sistema di potere autoritario e piramidale. Se nel corso di una serata si assiste a quel racconto, unico e irripetibile, resta aperta e sempre presente l’esistenza di altre storie possibili. E’ il qui e ora del teatro, è la presenza dell’osservatore che tra le numerose storie fa «collassare» quella effettivamente raccontata, facendola passare dal virtuale al reale.
Ma a questo punto mi interrogo: nella struttura del vostro Mandala, esistono infiniti percorsi possibili, o solo un numero finito di percorsi? (un numero finito) Ed esistono percorsi infiniti? E se esiste un percorso infinito, si tratta di loop o di un percorso a-periodico? (Mi immagino una replica infinita delle Storie mandaliche, con il narratore e il pubblico persi labirinticamente nel racconto, come nelle Mille e una notte). E poi, esistono (come nell’eterno ritorno buddista) percorsi ouroborici che ritornano al punto di partenza? (forse lo spettacolo dovrebbe finire così, al punto di partenza, dove tutto è uguale e al tempo stesso diverso, mentre in effetti in Storie mandaliche i percorsi vanno dai sei punti d'ingresso verso il centro, come nei percorsi seguiti normalmente nel corso della meditazione sui Mandala).

Credo in ogni caso che Storie mandaliche sia una delle prime occasioni in cui una struttura narrativa così complessa viene utilizzata sulla scena con tale efficacia e leggerezza (ovvero senza mai far pesare, nel corso della narrazione, il meccanismo narrativo e tecnologico che la sottende). Ma questo è solo uno degli aspetti del lavoro. Perché questa «ipertesto mandalico» prende sostanza in due medium che interagiscono: da un lato il racconto orale, dall’altro uno schermo popolato di icone (ai quali andrebbe aggiunta la colonna sonora di Mauro Lupone).
Il rapporto tra la narrazione e l’icona è uno degli snodi centrali dell’attuale scenario comunicativo: basti pensare al fragile equilibrio che trovano sullo schermo dei nostri pc. Lo specifico di Storie mandaliche risiede proprio nell’interazione tra la dimensione narrativa e quella iconica, nello «spazio mentale» che crea nello spettatore (e qui siamo per molti aspetti vicini al fumetto, nel connubio della narrazione con una visualità semplificata, codificata).
Anche se il ruolo dello schermo con le animazioni flash in Storie mandaliche è assai più complesso. Dal punto di vista della tradizione teatrale, lo schermo con le animazioni flash è un elemento scenografico: quanti sono gli spettacoli che usano come sfondo proiezioni cinematografiche o televisive... Ma in realtà l’interazione dell’interprete con questa «scenografia» è assai più intensa: per certi aspetti ricorda gli attrezzi usati dai giocolieri, fino quasi a diventare una estensione del corpo dell’attore-narratore (che peraltro sullo schermo si materializza nel puntatore del mouse - il fulcro o il punto cieco del rapporto tra lo schermo e il reale). Ancora, le immagini sullo schermo, come nelle tele dipinte dei cantastorie, costituiscono in qualche modo una «illustrazione» della storia (danno un equivalente visivo del racconto) e al tempo stesso ne sono il motore: offrono un supporto mnemonico al narratore (come i quipus andini, fatti di cordini colorati e annodati che stenografano i punti chiave del racconto e che il narratore, facendosi scorrere tra le dita, utilizza come memoria), e spesso - quando appunto s’incontra un nodo - diventano il motore della narrazione.



Inoltre quello schermo è esso stesso un teatro, popolato di icone animate o in movimento. Sulla metafora dello schermo del computer come teatro ha insistito Brenda Laurel; e sulla strada che ha tracciato, c’è stato chi ha assimilato al teatro anche le animazioni flash attualmente usate in Storie mandaliche.

«Un sito Flash viene sviluppato come un microcosmo che sboccia in un macrocosmo. Il medium internet è la "scena" /stage/ -- la piattaforma dove l'animatore Flash /flashanimator/ importa, incolla e scolpisce "simboli" (personaggi /charachters/) cui vengono assegnate "azioni" (ruoli /roles/) in una trama /plot/ grafica multidimensionale. L'animatore Flash è l'autore di un dramma /play/ sulle verità visuali della vita. La gamma espressiva della grafica in movimento è incredibile, dalla serenità all'ansia». (Nate Burgos, Flash Fetish, in "ctheory")

Va sottolineato che la scelta di usare animazioni flash (che con le loro semplificazioni rimandano all’ideogramma) si contrappone decisamente alla ricerca del realismo perseguita dal cinema e dai videogame. La scelta è, al contrario, di spingersi verso la dimensione simbolica - verso il mito o la fiaba. E in questa direzione vanno anche, ovviamente, le storie narrate.
Credo che la scommessa di Storie mandaliche sia quella di costruire un’esperienza comunicativa complessa a partire da elementi semplici e immediatamente decodificabili (anche da un bambino, e in questo sta l’apparente ingenuità «fiabesca» dei racconti), con un robusto supporto tecnologico usato consapevolmente e senza feticismi. La consapevolezza riguarda soprattutto la ricerca sugli effetti di una tecnologia sul nostro rapporto con il mondo e sulle nostre modalità comunicative. In questo caso la possibilità di creare link e dunque una rete si oggettiva ovviamente in primo luogo nel Mandala, che è insieme un’icona visibile (la prima, che all’inizio della serata viene «spiegata» come in un documentario in termini storici e filosofici) e la struttura nascosta dello spettacolo. Successivamente i link (le scelte) diventano anch’esse un elemento narrativo - anzi, il principale elemento narrativo:
La tecnologia viene utilizzata con grande naturalezza, tanto da risultare praticamente «invisibile»: il narratore utilizza con grande scioltezza il mouse, clicca tranquillamente sui link, lancia le animazioni flash senza che questo causi nel pubblico sorpresa e meraviglia - tutto questo fa già parte del nostro mondo. Per questo mi sono molto piaciuti i momenti in cui qualcosa non ha funzionato: perché in questi momenti di verità tutta la complessità del meccanismo diventa visibile (e si capisce anche che sulla tecnologia è in qualche modo possibile intervenire per correggere, riprendere eccetera - forse si potrebbe addirittura inglobare nella trama dei racconti qualche incursione nel cuore del meccanismo, anche se l’«effetto verità» dell’attore alle prese con il problema tecnico è un’altra cosa). Sono quelli i momenti in cui lo spettatore capisce quello che c’è oltre la cornice (è curioso come l’equivalente del teatro nel teatro corrisponda in questo caso all’errore tecnico).
Per valutare il senso complessivo di questa fase della ricerca (al di là di squilibri e aggiustamenti di minor peso), credo sia utile fare un esperimento mentale: pensare di vedere unicamente le animazioni flash (come un cartone animato), oppure pensare di ascoltare unicamente il racconto (radiofonicamente). Ciascuna di queste «versioni» delle Storie mandaliche rischierebbe di apparire non solo povera ma sostanzialmente incomprensibile: le icone sono semplici, le animazioni non sorprendono mai con i loro effetti speciali; e il racconto per ora rischia spesso di scivolare nel fiabesco oppure, nel finale, in astrazioni intellettualistiche (ma qui si tratta probabilmente di trovare il giusto equilibrio, e di restituire nella narrazione i diversi livelli di lettura del racconto, evidenziando i nodi simbolici).
Ma non è questo l’importante: la chiave del lavoro non è tanto la bellezza delle immagini o la tenuta del plot. L’importante è che le immagini non sono solo illustrazione del racconto, il sonoro non è solo commento delle immagini. Accoppiando immagini e sonoro, potrebbe nascere un cd-rom (e un sito internet) dove alla fisicità dell’attore e all’esperienza collettiva del pubblico si sostituisce l’interattività più immediata del singolo utente. Perdendo inoltre le risonanze con la narrazione popolare che la versione teatrale suscita immediatamente. Ecco, credo proprio lavorando sull’indispensabilità reciproca di icone e racconto da un lato, oltre che sui momenti di verità nello svelare i segreti della macchina, le Storie mandaliche possono continuare a crescere e trovare la loro specificità e credibilità.
Non so se con questo «sistema narrativo» sia davvero possibile creare uno «spazio mentale» alternativo, più aperto alla dimensione simbolica da un lato e in grado di cogliere con maggior sottigliezza le potenzialità dei «mondi paralleli». Va anche tenuto conto che la dimensione ludica («Quale strada imbocchiamo?») può avere risonanze assai diverse quando a compiere la scelta è un unico utente che usa un cd-rom di fronte allo schermo di un pc, oppure un gruppo di persone unite di fronte a un narratore-sciamano. Tuttavia mi pare che il senso profondo della scommessa dia proprio questo: attivare zone che si trovano in profondità (nell’hardware dei nostri meccanismi percettivo-emotivi, o attivando contemporaneamente diverse funzioni mentali, o se si preferisce interagendo con strati dell’anima

L’animazione del mandorlo (Flash 6): eventualmente cliccare sul pulsante destro e poi "Riavvolgi"
.

Altre info su Storie mandaliche 2.0 in ateatro 56.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
 > scrivi a amm

 

L'ipertesto mandalico
Un mail a Oliviero Ponte di Pino
di Andrea Balzola

 

Ciao Oliviero,
ho letto adesso le tue riflessioni su Storie mandaliche che mi ha inoltrato Anna, stavo per scriverti anch'io e di pochissimo mi hai preceduto.
Per quanto riguarda la struttura del nostro Mandala, abbiamo preso a modello il senso tradizionale del mandala buddhista (io ho studiato soprattutto quello tibetano, non solo sui libri ma con maestri tibetani) e l'interpretazione junghiana, dove il Mandala ha radici archetipiche universali (si manifesta spontaneamente nei sogni individuali e nelle rappresentazioni artistiche-rituali di molte civiltà)ed è veicolo simbolico e strumento della trasformazione (purificazione delle negatività e loro trasformazione, funzione simbolica che avevano anche i labirinti delle cattedrali gotiche cristiane), orienta la frammentazione della psiche e dell'identità verso un centro. Questo centro per Jung è il Sé, quindi la porta d'accesso del singolo alla dimensione universale e trascendente, per i Buddhisti è la consapevolezza realizzata e risvegliata, la consapevolezza del Vuoto (ovviamente da non confondere, come spesso si fa in occidente, con il Nulla nichilista): «Il vuoto è forma e la forma è vuoto».
Sulla base di questa struttura ho creato l'ipertesto narrativo, si entra nel Mandala da 6 punti cardinali o porte (est, nord, ovest, sud, nadir, zenith) e si giunge a un centro unico. I punti cardinali corrispondono anche agli elementi e ai quattro regni: minerale, vegetale, animale, umano maschile e femminile, il centro è il regno divino. In questo centro dove tutte le storie confluiscono, si sciolgono e si trasformano si apre la porta dell'irrapresentabile, ecco perché l'ermafrodito, sintesi dei contrari e di tutti i regni. Il linguaggio qui deve cambiare registro, non più narrativo ma poetico, non più descrittivo ma dichiaratamente simbolico ed ermetico.
Questa struttura, in cui tutti i percorsi si intrecciano in più punti (i link delle storie), presenta molte (non infinite) varianti che possono rendere la narrazione sempre diversa nella combinazione - decisa dal pubblico - dei sentieri da seguire e montare tra loro. Il finale non può essere circolare (sarebbe una soluzione simbolicamente altrettanto significativa e legittima, ma richiede un'altra struttura di partenza) e deve essere unico, cioè portare sempre al centro, come nel Mandala classico. Tutte le storie hanno diversi link durante il percorso, non appena compaiono nuovi personaggi protagonisti oppure in loro successive apparizioni. L'unica storia che ha link solo alla fine è la pietra perché è cronologicamente (e simbolicamente) antecedente alle altre, è sul piano simbolico la pietra angolare della narrazione così come nel racconto è la pietra angolare del tempio di Gerusalemme. I fatto che la pietra sia un passato che si può raccontare dopo il presente mi sembrava una distorsione temporale interessante, se risulta troppo lunga come porzione narrativa si può pensare di abbreviare la narrazione teatrale.
Il rapporto tra narrazione e icona che tu hai giustamente rilevato come centrale (ma aggiungerei anche il sofisticato lavoro sul sonoro di Lupone, che deve ancora essere valorizzato appieno) si snoda proprio attraverso lo schema dei link, che era già progettato e presente nella scrittura delle storie e che è stato perfezionato e arricchito nel lavoro di messa in «icono-scena». In effetti noi, per sincronizzare i linguaggi e mettere alla prova la loro forza singola abbiamo fatto durante il laboratorio quello che tu ora ci consigli, cioè provare separatamente la narrazione e la sequenza animata. Il risultato ci era parso soddisfacente, con aggiustamenti che faremo nel prossimo e ultimo laboratorio (probabilmente ancora a Castiglioncello) prima della Prima.
Quando tu dici che ti sono piaciuti gli errori che fanno vedere la «macchina» tecnoteatrale ti capisco bene e sono d'accordo, é nella strategia interattiva di Giacomo fingere almeno una volta di sbagliare per rilanciare attenzione e curiosità (vecchio trucco della commedia dell'arte), ma è anche interessante far vedere al pubblico e percorrere esplicitamente con il mouse le iconcine nascoste dei link, in questo modo si rivela, senza ostentarlo, la struttura ipertestuale delle sequenze animate.
Io credo, diversamente da te, che sia "la bellezza delle immagini" (forse alcune le avrei preferite più artistiche e meno videogame) sia la "tenuta del plot" siano necessarie per reggere e "slanciare" l'insieme. Per questo non sono d'accordo ( o per lo meno mi preoccupo) quando dici che le storie sarebbero deboli senza immagini, perché rischiano di "scivolare nel fiabesco oppure, nel finale, in astrazioni intellettualistiche".
Per quanto riguarda l'intellettualismo dell'ermafrodito, io e Giacomo siamo convinti che sia una sensazione provocata dal fatto che quella parte (non essendo stata ancora studiata e interiorizzata da Giacomo) è stata letta, e quindi non modulata da un salto di registro che ci deve essere anche nella narrazione, inoltre c'erano dei problemi sul volume del sonoro e sulla sincronia stessa delle immagini che hanno fatto risultare troppo lunga e artificiale una parte che dev'essere soprattutto, aldilà del simbolismo, follemente poetica e sintetizzare l'esito dei vari personaggi.
Il rischio del fiabesco è invece un rischio calcolato, il racconto mitologico si rivolge tanto agli adulti quanto ai bambini, ovviamente con diversi livelli di lettura e di coinvolgimento. Il mio tentativo di scrittura è stato quello di sviluppare una narrazione apparentemente semplice, quasi elementare, come una specie di favola metropolitana (una favola con tematiche adulte e contemporanee), sostenuta però da una struttura simbolica profonda e da una sofisticata (generata non però a freddo, a tavolino, ma tramite un viaggio interiore) tessitura di associazioni e corrispondenze. Non è necessario che siano colte tutte e subito, ma comunque agiscono, come una sorta di mappa segreta della narrazione, nella quale ognuno (sia chi la fa che chi la sente) potrà perdersi e ritrovarsi a modo suo. E in effetti è quello che, da molte reazioni che abbiamo avuto alle prove di Castiglioncello (e alle precedenti versioni), sembra accadere, chi è disposto a entrare nel Mandala (come ci ha detto un attore spettatore, chiediamo allo spettatore una partecipazione non distratta) si perde nei rivoli o nel fiume della storia, a proprio modo, ciascuno sognando uno spettacolo diverso. Con la sapiente orchestrazione narrativa da cybercantastorie di Giacomo, che secondo me sta trovando il registro sempre più giusto per raccontare, tra l'antico cantastorie, l'illusionista digitale e lo sciamano (alla fine, la guida che amichevolmente ed anche misteriosamente conduce nel teatro di un ipersogno. Non appena sarà rodata l'intera macchina e interiorizzate le storie, Giacomo potrà gestire gesti, suoni, pause, parole e animazioni come un direttore d'orchestra.
Ti ringrazio ancora moltissimo per il tuo contributo, così articolato e generoso, un'altra caratteristica di questo nostro progetto è che non ci interessa tanto avere dei critici che ci concedono un'ora del loro prezioso tempo per vedere la Prima, ma trovare dei compagni di strada come te che interagiscano creativamente e intellettualmente con il lavoro di costruzione dello spettacolo, con stimoli, suggerimenti, letture personali, critiche sincere e costruttive, perché non crediamo più nel teatro catena di montaggio dello spettacolo che domina le nostre scene, ma nel laboratorio antropologico del teatro (non a caso lavoriamo a questo progetto da tanti anni).
Un caro saluto
Andrea Balzola

N.56 (20.08.03)

Storie mandaliche 2.0 di Andrea Balzola e Giacomo Verde a Castiglioncello
Verso una narrazione ipertestuale
di Anna Maria Monteverdi

 

Mandala è un diagramma di forme geometriche e antropomorfiche che manifestano diverse sfaccettature di significato (...) Immagine del mondo e luogo della teofania, proiezione della psiche e percorso che conduce all'illuminazione, il mandala è costruzione sintetica e dinamica (...) poiché è integrazione dell'uomo nell'universo e dell'universo nell'uomo; il termine più calzante per definirlo resta ancora quello di “psicogramma” coniato da Tucci.
(M. Albanese-G. Cella, Mandala, il linguaggio del profondo)


Nella primavera del 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell'individuo, “cosmogramma” e “psicogramma” come ricordava Tucci. 1
Al Festival Scantafavole di Ripatransone (Ascoli Piceno, luglio 1998) inizia il primo laboratorio con conferenza dimostrativa pubblica in cui contestualmente alla scelta già predeterminata del sistema interattivo Mandala System, si pongono le premesse per la scelta dell'iconografia e il primo abbozzo di un testo che per adattarsi alle esigenze della macchina tecnologica fu concepito da Andrea Balzola con caratteristiche ipertestuali, ovvero connessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi e i luoghi. Balzola li definisce “iperracconti”. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette storie di personaggi “linkate” tra loro che hanno un andamento “concentrico”: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l'ermafrodita. Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e a un punto cardinale (nell'orientamento mandalico l'Est è rivolto in basso) più il Nord-Est che è nella simbologia mandalica il luogo del sole, il sud-ovest che è il luogo della luna, e il centro.
Il Mandala, il “cerchio magico” della tradizione tantrica, è un elemento fondamentale delle cerimonie rituali e delle pratiche di meditazione, secondo Jung “strumento per l'individuazione del sé” e “rappresentazione simbolica della psiche”. La struttura del mandala è concentrica: ha quattro porte che corrispondono ai punti cardinali ed un centro che è particolarmente importante perché il mandala è la determinazione di un percorso che conduce all'illuminazione attraverso un rito di orientamento. Il labirinto greco, i rosoni delle cattedrali medioevali, la figura del serpente uroboros si ricollegano allo stesso sostrato simbolico.2
La narrazione teatrale ha come unico elemento scenografico una piramide di legno a tronco rovesciato, come la montagna sacra della tradizione induista, intorno al quale il narratore agisce e racconta ripreso dalla telecamera posizionata a terra e con il pubblico seduto nel perimetro mandalico. In Storie mandaliche, che raccoglie l'eredità del tele-racconto, lo spettatore teatrale, collocato dentro il cerchio, entra dentro la narrazione, nel crocevia di tutte le storie con le immagini e i suoni in continua trasformazione grazie al programma informatico Mandala System. Nel Mandala System è possibile fondere insieme sfondi, ambienti bidimensionali con oggetti tridimensionali attraverso la videocamera: la videocamera riprende in diretta il corpo o la mano del narratore che viene digitalizzata in tempo reale e la sagoma della figura ripresa, appare sovrapposta alle immagini e agli oggetti generati, invece, dal computer. Se la mano o il corpo ripreso dalla telecamera “tocca” (virtualmente) qualcuno degli oggetti, crea eventi di tipo visivo e sonoro, generando in diretta situazioni in continua trasformazione trasmesse nello schermo o nei quattro monitor angolari. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi e ha acquistato nuovi sviluppi narrativi e “volubilità” di forma a seconda dei “contesti partecipati” in cui era collocato e delle ipotesi di lavoro e delle ricerche del gruppo; il Mandala System3 è stato sostituito dalle animazioni in formato Flash, create da Lucia Paolini; a ogni animazione è legata una musica, del compositore elettronico Mauro Lupone. 4 Nell'architettura labirintica e ramificata della narrazione non lineare e non sequenziale della scrittura ipertestuale creata per Storie mandaliche ognuna delle sette storie percorse conduce al centro - come ogni mandala.
Il centro, ovvero alla fine del tragitto, è la soluzione e il luogo fisico dove tutte le storie si intrecciano e si incontrano. La narrazione è quindi un percorso che conduce verso il centro, dentro l'intreccio dell'unica trama che lo spettacolo va a svelare: chi si trasforma non muore, chi non si trasforma muore, dietro cui si nasconde l'archetipico topos della mutazione-traformazione presente in tutti i miti e leggende della tradizione occidentale e orientale. La trasformazione è anche la caratteristica dell'ipertesto, ovvero "rete di segni interconnessi", la sua continua modificabilità e transitorietà dal testo di partenza in cui la responsabilità del percorso narrativo si trasferisce dall'autore al lettore (o al digitatore). Modalità "itinerante" e "creativa" è stata definita la navigazione in uno spazio di scrittura ipertestuale da parte di un “lettore attivo e a volte anche un po' invadente”. 5
Nella modalità del racconto orale inoltre, la storia viene ogni volta modificata, ricreata, si aggiungono particolari, se ne omettono altri a seconda dello "stato d'animo" del pubblico: il narratore diventa, secondo una bella definizione di Giacomo Verde "un termometro dell'emotività della platea"; l'attore-sibilla, attraversato dall'umore del pubblico, partorisce parole, suoni e immagini ed è in qualche modo anche lui "impasto di incessanti mutazioni”. 6 Longo ha riflettuto sulla recente riscoperta della narrazione, "attività non più unilaterale, rigorosa e sequenziale tipico della scienza bensì dalla dimensione immaginaria e dalla colorazione affettiva”. 7 A tale scopo il lavoro del tecnonarratore unisce alla memoria orale collettiva (quella che Pietro Barcellona definisce "il deposito della gruppalità, la cui elaborazione è fondamentale per la creazione dell'individualità” 8), l'abilità digitale (nel senso letterale e anche etimologico del termine): il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il narratore sulla base dell'immagine del raccontastorie 9) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini in videoproiezione che lui stesso può trasformare seguendo il ritmo in tempo reale del suo racconto.
Storie mandaliche, luogo politonale di ricerca di un teatro della parola, è la possibilità di giocare una parola differente, che prende corpo, suono e immagine potendo sdoppiarsi, metamorfosarsi, concettualizzarsi e riconvertirsi in nuovo significato conferendo allo spettacolo mobilità di identità e di senso, come era nella originaria natura della maschera. In questo nuovo teatro, gioco di scambio di estetiche e di stati d'animo, il narratore tra computer e video in scena, conduce l'azione in un percorso labirintico prima della storia, prima di tutte le storie e lo spettatore dentro miti e archetipi invisibili. Lo spazio torna così ad assumere le connotazioni antropologiche e magico-rituali del “sacro recinto” arricchito di una sorprendente imagerie, frutto di un'elaborata scrittura scenica e di una raffinata partitura a più voci.

NOTE

1 G. Tucci, Teoria e pratica del Mandala, Milano, Ubaldini, 1969.
2 K. Kerény nel volume Dioniso riporta le iconografie greche antiche documentate a Mileto, nel Santuario dedicato ad Apollo, al Palazzo di Cnosso e su raffiguazioni provenienti da Atene relative all'immagine (come segno e non simbolo) del labirinto: il meandro e la spirale continua (linee curve o angoli retti), percorso iniziatico aperto che conduceva al centro e poi con una giravolta decisiva di nuovo all'ingresso se la conversione avveniva esattamente al centro oppure, se tracciato chiuso, prigione eterna senza via di uscita in cui si perde la vita. Labirinto come luogo di morte o di illuminazione. Raggiungere il centro del labirinto signicava, infatti, nel mondo greco antico, penetrare nei recessi sotterranei e protetti dei misteri divini, itinerario sapienzialie per raggiungere una rinnovata condizione di "liberazione conoscitiva". K. Kereni, Dioniso, Milano, Adelphi, 1992; vedi anche K. Kerèny Nel labirinto, Torino, Bollati Boringhieri, 1983.
3 Sui software per la danza vedi E. Quinz, La scena digitale. Nuovi media per la danza, Venezia, Marsilio, 2001. Su Storie mandaliche esiste un originale studio di Laura Gemini confluito nella sua tesi di dottorato (L'incertezza creativa. La comunicazione teatrale, Università degli studi di Urbino, Facoltà di Sociologia, 1998-2000); la ricercatrice aveva seguito alcuni laboratori e spettacoli aperti al pubblico e intervistato da una parte
Giacomo Verde sugli intenti dello spettacolo, dall'altro gli spettatori per verificare quale degli aspetti contenutistici e in generale comunicativi dello spettacolo era stato maggiormento assorbito e compreso.
4 Storie mandaliche ha avuto ad oggi varie dimostrazioni-spettacoli a La Spezia, al Piccolo Regio di Torino, al Festival di Radicondoli, a Livorno, a Pisa. Documentazione più dettagliata su www.verdegiac.org. In corso di stampa il libro Storie mandaliche a cura di A. M. Monteverdi e A. Balzola. La nuova versione di Storie mandaliche prevede la collaborazione per le animazione in flash di Lucia Paolini.
5 G. Landow, L'ipertesto.Tecnologie digitali e critica letteraria, a cura di P. Ferri, Milano, Mondadori, 1998 (1a ed. 1994). L'ipertesto secondo Landow è costituito da blocchi di testo e da collegamenti elettronici tra i blocchi che permettono di “interagire, dar forma a sequenze sempre diverse, di generare percorsi di senso sempre diversi”. Ivi, p. 6.
6 La frase è di Fernando Mastropasqua in Attore e Sibilla, in Metamorfosi del teatro, Napoli, Esi, 1998.
7 G. Longo, Homo technologicus, Roma, Meltemi, 2001, p. 34.
8 P. Barcellona, L'individuo sociale, Genova, Costa & Nolan, 1996, p. 6.
9 G. Verde nello spettacolo delle Albe Lunga vita all'albero (1990) interpretava la parte del maggiante toscano che nella finzione teatrale era smemorato e chiedeva aiuto, per terminare la sua storia, al griot africano.

 

 

 

N.54  (01.07.03)          

 

Dedicato a Marisa Fabbri
L'editoriale
di Redazione ateatro

 

ateatro 54 è dedicato a Marisa Fabbri. Il perché lo spiega bene Andrea Balzola, nel ricordo che apre il numero: «Tra le molte cose che ho imparato, lavorando insieme a Marisa, la più rilevante è stata forse proprio la sua determinazione a rimettersi continuamente in gioco, a non sostituire mai la forma con la formula e la ricerca con il repertorio, anche quando, all’apice della fama, della carriera e in un’età avanzata avrebbe potuto limitarsi a gestire la sua "icona" pubblica».
Nel teatro italiano di questi anni, Marisa Fabbri ha rappresentato per molti un punto di riferimento, ma purtroppo anche una eccezione, una delle tante anomalie che faticano a incidere sul sistema. Però è anche grazie alla pratica artistica e alla carica umana di persone come Marisa Fabbri che le nostre scene, ogni tanto, hanno ancora qualche sprazzo di vita e di autenticità, e costruiscono occasioni di incontro e di scambio.
Uno degli obiettivi di ateatro (un obiettivo troppo ambizioso per le nostre forze) è di fare in modo che percorsi come il suo suscitino interesse e curiosità, possano essere meglio conosciuti e studiati, vengano inseriti in un sistema teatrale più aperto, trovino condizioni di lavoro più adatte alle loro necessità.

In ateatro 54 tiriamo qualche altro sasso nello stagno. Per prima cosa ricordiamo per l’appunto Marisa, grazie a Andrea Balzola che con lei ha lavorato in diverse occasioni.

 

Ciao, Marisa
Un ricordo di Marisa Fabbri
di Redazione ateatro

 

La scomparsa di Marisa Fabbri lascia un enorme vuoto nel teatro italiano.
Lo lascia perché non potremo più godere delle sue straordinarie interpretazioni - tra tutte leggendaria quella delle Baccanti (1976, Premio Ubu per la migliore attrice) all’interno del Laboratorio di Prato, dove era l’unica interprete della tragedia di Euripide, in un tour de force interpretativo che era anche una riflessione sul teatro, una rivelazione sul rapporto tra attore e spettatore.
Ma Marisa Fabbri lascia un vuoto anche e soprattutto per la sua generosità e per il suo amore per il teatro, vissuto sempre come luogo in cui mettersi in discussione e aprire un rapporto di comunicazione con il pubblico. Dal punto di vista tecnico, poteva rivaleggiare con Carmelo Bene, come ha dimostrato nel suo assolo V.O.C.E., ovvero Virgilio, Omero, Gregory Corso ed Euripide (1983). Così come erano straordinarie la sua intelligenza e acutezza nel leggere i testi: grazie a questa capacità analitica le sue interpretazioni erano anche acute operazioni critiche.
Nel corso della sua carriera, Marisa Fabbri ha lavorato con alcuni tra i maggiori registi del dopoguerra: Aldo Trionfo per Dialoghi con Leucò da C. Pavese (1964), Vinzenz e l'amica degli uomini importanti di R. Musil (1964), dove si esibiva in stile Marlene Dietrich, Elettra di Sofocle (1974); Giorgio Strehler per I giganti della montagna di Pirandello (1966) e Cantata del fantoccio lusitano di P. Weiss, (1968); e soprattutto Luca Ronconi per I lunatici di Middleton (1965), l'Orestea di Eschilo (1972), dove era Clitemnestra, Spettri di H. Ibsen (1981), Ignorabimus di A. Holtz (1986), dove per nove ore recitava in panni maschili in un cast tutto femminile premiato con l’Ubu, I dialoghi delle Carmelitane di G. Bernanos, Le tre sorelle di Cechov, L’uomo difficile di H. von Hofmannsthal (Premio Ubu per l’interpretazione particolarmente singolare), Gli ultimi giorni dell'umanità di K. Kraus (1990).
Nel corso della sua carriera Marisa Fabbri ha anche voluto e saputo rischiare collaborando con giovani registi: Cherif per Bestia da stile di Pasolini (1986) e Il Corano al Teatro di Roma (2000), dove leggeva il testo su Sabra e Chatila di Jean Genet, Mauro Avogadro per Il dolore da Marguerite Duras e La democrazia di Andrea Balzola (1999), Barbara Nativi per Io, Paola la commediante di Mario Luzi (2000).
Senza dimenticare che l’impegno artistico era strettamente legato a quello civile, come ha testimoniato di recente nell' intervista a Anna Monteverdi (da ateatro 25)

Nel prossimo numero di ateatro cercheremo di ricordare Marisa Fabbri nella maniera migliore: il nostro piccolo e doveroso tributo alla sua umanità, alla sua disponibilità e alla sua generosità.

Marisa Fabbri: una filmografia
Gli astronomi (2002)
Ybris (1984)
Milarepa (1974)
Non ho tempo (1973)
La Tosca (1973)
Diario di un maestro (1972)
Quattro mosche di velluto grigio (1971)
Sacco e Vanzetti (1971)
L'asino d'oro: processo per fatti strani contro Lucius Apuleius cittadino romano (1970)

 


 Il teatro come arte del cambiamento
Un ricordo di Marisa Fabbri
di Andrea Balzola

 

La scomparsa di Marisa Fabbri non lascia soltanto un grande, incolmabile, vuoto per coloro che le sono stati amici e compagni d’arte, ma è come l’inquietante sigillo messo a una stagione straordinaria del teatro italiano. In lei la vita e il teatro s’identificavano completamente, non per il narcisismo inesorabile delle prime attrici (il suo era consapevole e ironico), ma perché il teatro per Marisa era laboratorio sperimentale di un altro modo possibile di essere e di un nuovo mondo possibile. Allora, nella vividezza della sua presenza che comunque prevale sull’inaccettabilità della sua assenza, voglio interpretare la sua uscita di scena, involontaria e dolorosa ma ancora una volta coraggiosa (fino a una settimana prima di morire è stata sulla scena), come l’ultimo atto di protesta contro un teatro che sembra aver chiuso le palpebre e le porte alla ricerca pura, a quell’esigenza di sperimentazione che è e sempre sarà la sua linfa vitale. Un atto "metafisico" di dissenso nei confronti di un teatro malato di codardia, sempre più "teledipendente" e "divodipendente", incapace di nutrire e promuovere il nuovo ma esclusivamente aggrappato ai monumenti della sua storia.
Mi torna in mente una frase di Dario Fo che piaceva anche a Marisa: "Quando vedo i cartelloni delle stagioni teatrali italiane mi sembra di essere al cimitero, ci sono soltanto autori morti." E a chi diceva che il grande teatro in Italia non si apre alla nuova drammaturgia perché questa non ha qualità sufficienti, Marisa rispondeva che quest’atteggiamento era il segno dell’inguaribile provincialismo delle istituzioni teatrali italiane, perché la drammaturgia può crescere e maturare soltanto sul palcoscenico e attraverso di esso, le produzioni, i registi e gli attori devono investire sul nuovo perché il nuovo possa trovare le sue forme migliori, come accade nelle roccaforti teatrali europee che coltivano i loro talenti alla pari di una preziosa risorsa. E queste non erano solo parole, perché per decenni Marisa ha dedicato con entusiasmo il suo tempo a formare nuovi attori, sia all’Accademia d’arte drammatica di Roma sia nelle scuole fondate e dirette da Ronconi (dal Laboratorio di Prato alla scuola del Teatro Stabile di Torino), per decenni ha letto e valutato centinaia di copioni di giovani autori nell’ambito del Premio Riccione diretto da Franco Quadri e di altre giurie, cercando poi, in particolare nell’ultimo decennio, di trovare – non senza fatica – le occasioni produttive per portare in scena testi teatrali inediti di giovani autori italiani, o di contemporanei stranieri, o volentieri affidandosi alla regia di giovani registi. Tra le molte cose che ho imparato, lavorando insieme a Marisa,1 la più rilevante è stata forse proprio la sua determinazione a rimettersi continuamente in gioco, a non sostituire mai la forma con la formula e la ricerca con il repertorio, anche quando, all’apice della fama, della carriera e in un’età avanzata avrebbe potuto limitarsi a gestire la sua "icona" pubblica. La sua curiosità e la sua apertura intellettuale, si combinavano in modo rarissimo con una cultura appassionata (costruita appunto dalle passioni più che per erudizione), permeata da un sincero impegno etico e politico, mai tralasciato, e con una eccezionale capacità attoriale di immersione nella parola, nelle sue sfumature di senso e di suono. E proprio su quest’ultimo terreno l’incontro con Ronconi, all’inizio degli anni Settanta (ma già nel 1964 I lunatici di Middleton li aveva apparentati), fu per lei una folgorazione, tanto che, dopo essersi affermata con Strehler nei "favolosi anni Sessanta" del Piccolo, e con Aldo Trionfo al Teatro Stabile di Trieste, non disdiceva essere considerata "attrice ronconiana". Lei era stata una delle anime protagoniste, insieme al grande Gian Maria Volontè, dell’ala radicale del Piccolo, fautrice di una scossa sessantottotesca alla quarta parete culminata con la fuoriuscita dal Piccolo e l’avventura del Fantoccio lusitano, un duro testo antifascista di Peter Weiss rappresentato nelle Case del Popolo prima che nei teatri tradizionali. Il distacco da Strehler, che pure Marisa ha continuato a stimare per tutta la vita come un Maestro, era non a caso avvenuto anche in seguito all’intuizione che il regista demiurgo avrebbe preferito infine rinchiudersi nel castello delle proprie creazioni, impegnato forse più a costruire il proprio monumento che ad accogliere e interpretare le trasformazioni in atto oltre le mura.
Di Ronconi invece ammira subito il titanismo, il gusto per le imprese "impossibili", la fortissima personalità nell’impostare in chiave antinaturalistica una nuova modalità recitativa degli attori, la straordinaria capacità di penetrare e quindi di rimodellare teatralmente la partitura drammaturgica, e una concezione sperimentale dello spazio e della macchina scenici. Da parte sua Ronconi riconosce in Marisa l’attrice "intellettuale", capace di capire e di restituire nella voce, nei gesti e nel corpo, tutta quella complessità di sfumature, di motivazioni, di elaborazioni drammaturgiche e registiche che costituiscono la dimensione originale, distintiva e "autorale" del suo lavoro. Marisa, infatti, in una conversazione sul bilancio della sua esperienza di "attrice ronconiana" mi diceva:2 "Luca non è tanto un regista, quanto un autore, e quando dico autore non significa che lui prenda dei testi a pretesto e ne faccia una sua opera, al contrario è autore nella misura in cui li legge così bene, attraverso il significante riesce a captare tutto il loro spessore." Ronconi crea così per lei personaggi difficili e indimenticabili come la Clitennestra dell’Orestea, il vecchio dottore di Ignorabimus di Holz, una delle regine del Riccardo III, una delle Tre sorelle di Cechov, o la chiaroveggente in Affabulazione di Pasolini, ma soprattutto reinventa per lei Le Baccanti di Euripide, trasformandolo nel monologo di una spettatrice che rivive le azioni di tutti i principali personaggi.
Proprio quelle Baccanti era lo spettacolo a cui Marisa era più affezionata, la pietra miliare di riferimento della sua ricerca di attrice e anche della sua esperienza di formatrice di tante nuove generazioni di attori. Quella sua peculiare capacità di far vivere ogni parola dall’interno (l’ammirava per questo anche il più spietato censore dei suoi "colleghi", Carmelo Bene), maturata pienamente nella sua lunga frequentazione ronconiana, voleva essere costantemente nutrita, arricchita e rimessa alla prova, e dagli inizi degli anni Novanta Marisa si avventura alla ricerca di nuovi percorsi drammaturgici. Il punto di svolta è il monologo su un testo letterario di Italo Calvino (il suo scrittore preferito): Dall’opaco, presentato a Parigi, al Théâtre de l’Odéon, e poi ripetutamente ripreso, dove lo scrittore cerca di raccontare ciò che appare irraccontabile, cioè l’esperienza visiva del mondo. Questa sfida di Calvino, di "far vedere" con le parole, viene raccolta e rilanciata da Marisa che "fa vedere" con la sua voce. Passando da un’esilarante Madre Ubu di Jarry (in un registro comico grottesco ripreso anche nei Parenti terribili e nella toscanissima Gallina vecchia di Novelli) a un testo della Battaglini con la regia di Tiezzi, ai monologhi di Dacia Maraini, di Marguerite Duras o di Heiner Müller, lei amava ripetere che il teatro doveva ritrovare quella capacità di raccontare la contemporaneità, così come accadeva nel cinema.
Forse il suo unico rammarico di attrice era proprio quello di non aver avuto più opportunità di lavorare per il piccolo schermo, dove pure aveva dato una prova straordinaria nel ronconiano John Gabriel Borkman di Ibsen, e soprattutto per il grande schermo. Le sue esperienze cinematografiche con Cavani, Montaldo, Dario Argento, De Seta fino al recentissimo Gli astronomi di Roncisvalle, dove interpreta un personaggio maschile (come più volte le era capitato a teatro), le avevano lasciato il gusto di un’altra carriera possibile, per la quale sarebbe stata altrettanto grande.



Ricordo in proposito che quando allestimmo lo spettacolo Democrazia (Lia e Rachele) al Teatro di Roma, dove lei recitava i ruoli di due sorelle, opposte e complementari, era previsto dal testo un dialogo finale tra i due personaggi che dopo molti anni si incontrano, una dal vivo e l’altra in video. In questo dialogo di Marisa con la sua immagine (teatralizzato da un’originale soluzione scenica ideata da Ronconi), emergeva non solo un’ardua sfida tra l’attrice e il suo doppio, ma anche il confronto tra due chiavi interpretative diverse – una più passionale e generosa, l’altra più asciutta e tagliente – che diventavano metafora del confronto tra i due linguaggi teatrale e video e anche metafora delle due anime attoriali di Marisa. Franco Quadri la riconosce "magistrale anche sullo schermo in un finale che sposta il duello sul non detto e quindi anche sulla sfida artistica: Marisa Fabbri da Lia e Rachele a Eva contro Eva, in un delirio di applausi."3 Ed è così che io voglio ricordarla.

NOTE
1
Per la messinscena di due miei progetti teatrali con Marisa Fabbri unica interprete: il primo è un adattamento teatrale del diario di Marguerite Duras Il dolore, prodotto dal Teatro Stabile di Torino, con la regia di Mauro Avogadro (1997 e 1999); il secondo è Democrazia. Lia e Rachele, un testo dove due sorelle sono interpretate dalla stessa attrice, scritto nel 1995 proprio sull’ispirazione delle qualità attoriali di Marisa e a lei dedicato. Il testo è andato in scena a Roma nel 1999, produzione del Teatro di Roma, a cura di Claudio Longhi e con la supervisione di Luca Ronconi. Per i due spettacoli cfr. il Patalogo 22, Ubulibri, Milano, 1999.
2 A. Balzola (a cura di), Conversazione con Marisa Fabbri sulla sua esperienza di attrice ronconiana, pubblicata in Il castello di Elsinore, anno IV, n.18, 1993, Rosenberg & Sellier, Torino.
3 Franco Quadri, in il Patalogo 22, op. cit. p.113.


 


 Dal testo alla scena, con Marisa
Il dolore di Marguerite Duras nello spettacolo di Andrea Balzola e Mauro Avogadro
di Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi

 

Il dolore della Duras nell'adattamento teatrale di Andrea Balzola - che si è avvalso della traduzione originale di Monica Rapetti - per la regia di Mauro Avogadro, con Marisa Fabbri unica magistrale interprete, è stato prodotto dal Teatro Stabile di Torino e ha debuttato il 2 marzo 1999 al Teatro Carignano.

Il dolore: diario di un'attesa infinita (Andrea Balzola).
Marguerite Duras entra nella resistenza al nazifascismo nel 1943 insieme a suo marito Robert Antelme e al loro inseparabile amico Dionys Mascolo. Il gruppo di cui fanno parte è il "Movimento Nazionale dei Prigionieri di Guerra e dei Deportati" guidato da François Mitterand con lo pseudonimo di François Morland. Nel giugno del 1944 Robert Antelme e sua sorella Marie-Louise sono arrestati dai tedeschi e deportati a Dachau. Nella primavera del 1945, alla vigilia della resa tedesca, Marguerite non sa se Robert è vivo o morto, aspetta il suo ritorno; al suo fianco c'è Dionys, che diverrà dopo la guerra, il suo secondo marito e padre del suo unico figlio, Jean.
Durante questi mesi Marguerite scrive un diario.
Decenni dopo ritrova questo diario nella sua casa di campagna, non ricorda più di averlo scritto. Lo pubblica quarant'anni dopo, nel 1985. Non può ricordarlo perché quelle pagine coincidono con l'esperienza di un dolore assoluto: il dolore dell'attesa e il dolore del ritorno. Non sono parole, è respiro, battito cardiaco, ansia, soffocamento, rabbia, angoscia, solitudine allo stato puro. Non è letteratura, è vita. Un delirio lucidissimo, perché in queste pagine c'è anche una limpida radiografia di come le ragioni della politica post bellica abbiano prevalso anche in quella circostanza su migliaia di vite umane, di come l'ipocrisia della Destra gaullista abbia gestito la fine della guerra, celebrando se stessa e tacendo sull'Olocausto. Soprattutto appare profetico l'invito della Duras a non liquidare con la Germania nazista tutto il peso di questo atroce crimine di massa ma a farsi carico di quella che è stata innanzitutto, secondo le parole di molti deportati, una sconfitta dell'uomo. Di tutti gli uomini. Il cosiddetto "dopoguerra" ha dimostrato che una pace autentica non è mai giunta e che le radici dei "crimini contro l'umanità" sono sempre fertilissime: gulag, desaparecidos, deportazioni e genocidi etnico-religiosi, lager di bambini per pedofili, strumenti di tortura esposti e venduti legalmente in apposite fiere (vedi le denunce di Amnesty International e altri). Oggi siamo informati di tutto ma digeriamo tutto. Il testo di Marguerite Duras non è digeribile. Lei stessa ha dovuto dimenticarlo per poter continuare a vivere. Lo ha pubblicato alla fine della propria vita, come dono del proprio dolore, non alla memoria ma per un presente più consapevole.

L'adattamento teatrale
(Andrea Balzola)
Ho pensato di portare sulla scena italiana Il dolore nella convinzione che questa scrittura così profonda, insieme immediata e visionaria, avesse una forza drammatica tale da far rivivere quel dolore oltre la memoria dell'Olocausto, come coscienza del presente. Perché non c'è ritorno da quel dolore, finché deportazioni, esodi di profughi, campi di concentramento e di sterminio continuerannno a riprodursi. Questo spostamento al presente è originale, perciò ne ho attualizzato in alcuni passaggi, il tempo verbale e ho tolto all'inizio del testo teatrale i riferimenti cronologici e geografici in modo da creare una attesa "assoluta", al presente, lasciando trapelare, poco alla volta, gli indizi della connotazione spazio-temporale. Fin dall'inizio, l'adattamento teatrale è stato concepito per Marisa Fabbri, strordinaria interprete di un teatro inteso come laboratorio artistico della coscienza contemporanea e la redazione finale del testo è il risultato di un work in progress di interazione tra ipotesi drammaturgica e verifica interpretativa.
Con lo stesso spirito Mauro Avogadro regista molto sensibile alla qualità letteraria e ai temi dell'impegno civile nella drammaturgia contemporanea, ha reso possibile l'allestimento dello spettacolo. Il mio lavoro di adattamento è stato ispirato al massimo rispetto del senso del ritmo della scrittura durasiana, perciò mi sono avvalso di una nuova traduzione originale di Monica Rapetti. Mi sono limitato perlopiù a ridurre la lunghezza del racconto e a rimontarne alcune parti, drammatizzandole in funzione della recitazione di una sola interprete. Ho diviso il continuum diaristico del racconto in due parti e cinque quadri: "L'attesa (tre quadri) e "Il ritorno" (due quadri), immaginando una scena molto essenziale e non naturalistica, con un doppio sonoro - affidato alla maestria di Hubert Westkemper - che interagisce come traumatica memoria esterna con il soliloquio dell'attrice.

La tortura della speranza (Anna Maria Monteverdi)
Viene spontaneo l'accostamento di questo testo della Duras con scrittori che di torture, reali o immaginarie, hanno parlato – Villiers de L'Isle d'Adam, l'uruguaiano Mario Benedetti – o registi e interpreti come il Living Theatre che quel dolore lo hanno presentato in scena con una crudeltà che è inscritta, innanzitutto, nell'evidenza della sua esistenza nel mondo. Un dolore che si manifesta come una ferita aperta non ancora rimarginata, attraverso una scrittura estrema, impossibilitata a raccontare di più e oltre quell'essenziale e terribile verità che la follia del mondo ha prodotto. La Duras ha la capacità di rendere contemporaneamente concreto e assoluto quel dolore: la parola, rigorosa e inequivocabile, insostenibile, come la scossa prodotta dall'elettrodo conficcato nei genitali del torturato, dà voce alle urla dei deportati di tutte le guerre, alle vittime di ogni intolleranza, pregiudizio razziale, proiettando il ricordo in una dimensione che scavalca il tempo e la memoria storica dell'Olocausto.
La scrittura della Duras non è solo scarna. È carne viva, è materia cellulare che respira colta nella sua distruzione quotidiana: partecipe in prima persona del dramma, ha acquisito la facoltà di sentire, di ansimare, di soffrire. Passa dalle sue breve frasi, a brandelli come il corpo che arriva dal lager, tutta la gravità di un'attesa che è già dolore. Di quel corpo inerme, privato di tutto, narra le vicende sanguigne, i bisogni fisici, solidarizza con ogni porzione della sua forma scheletrica, con il suo istinto primario di conservazione (la ricerca del cibo, la persistenza della memoria). Il rigore della forma con cui la Duras dà corpo a una vicenda illeggibile è crudeltà nel senso artaudiano del termine: è la vita in ciò che essa ha di irrappresentabile; le parole comunicano quella verità inaudita della progressiva deriva dell'uomo a tollerare l'intollerabile.
Come la scrittura della Duras è parte stessa del corpo violato, così la voce della Fabbri si rivela come un tracciato elettrocardiografico in costante oscillazione: comunica il senso estremo di una lotta senza tregua alla terribilità dell'attesa di una morte o di una vita, attraverso un convulso vomitare di parole, quelle dette, quelle pensate, quelle impresse sul foglio della macchina da scrivere. Tutto accade in una stanza, ridotta ai suoi segni essenziali, come quell'esistenza di cui va a raccontare l'immobilità generata dalla lunga permanenza sul baratro dell'attesa.
Non vediamo materialmente il ritorno dell'uomo dal campo di concentramento ma le parole della Duras – e la voce della Fabbri – sono altrettanto concrete, fisiche e ripugnanti nelle loro descrizioni, come lo è il cadavere – "la forma" – da resuscitare. Nella resa teatrale non rimane più alcuna traccia di un tempo determinato: quel dolore che ci riguarda – metafora di un oggi/sempre – racconta di sofferenze antiche e di tragedie recenti e si traveste ora nell'agonia dell'attesa, nel supplizio della speranza, ora nel terribile atto di accusa di chi lucidamente valuta l'esperienza del dramma personale alla luce di una tragedia globale che chiama in causa l'uomo, o meglio l'assenza di ogni umanità.
Contro l'abitudine all'indifferenza, contro l'ingessamento della memoria, contro la mutilazione del passato, nel racconto della Duras, il ricordo del dolore quale appare nella scrittura scenica di Andrea Balzola, si impone come cicatrice che segna la coscienza collettiva e insieme come valore da conservare, da condividere e comunicare. Nel presente.

(Questi tre testi sono stati pubblicati in A.M.Monteverdi, La maschera volubile, Corazzano-Pisa, Titivillus, 2000; il testo La tortura della speranza è stato pubblicato anche in "Baubo", 2000; )

Un ambiente sensibile e perturbante
Laura Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, Franco Angeli editore, Milano 2003.
di Andrea Balzola

 

L’incontro tra le nuove tecnologie della comunicazione e la ricerca artistica, sia generata dall’area delle arti visive e sia da quella del teatro, ha prodotto un impatto straordinario non solo sulla trasformazione dei media e delle arti in questione, ma anche sugli scenari presenti e futuri delle interazioni sociali. Il laboratorio dell’arte e il laboratorio delle nuove tecnologie si connettono e si determinano reciprocamente, sperimentando nuove forme di espressione e di comunicazione. E’ questo un fenomeno che dovrebbe essere di primaria attenzione in un mondo sempre più permeato e ridefinito dall’innovazione tecnologica, ma paradossalmente della tecnologia (letteralmente: logos, quindi pensiero e linguaggio, della tecnica) si continua a privilegiare l’aspetto operativo della tecnica rispetto ai modelli di pensiero e ai mutamenti linguistici che esso contiene e induce. Il risultato, a livello di una socialità più diffusa, è una costante estensione del dispositivo tecnologico di comunicazione, per prevalenti ragioni di mercato, inversamente proporzionale allo sviluppo di una creatività di pensiero e di espressione. Ciò che contrasta questa crescente forbice tra le potenzialità tecniche di comunicazione e la creatività collettiva, è proprio la sperimentazione artistica (soprattutto se accompagnata da una riflessione etica e filosofica), che da sempre ha la virtù "magica" di trasformare la tecnica in linguaggio e la capacità di unire la produzione di senso al divertimento.
Laura Gemini, ricercatrice e docente alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino, ha lavorato proprio su questi temi, realizzando un libro molto utile, che ripercorre con un taglio sociologico innovativo lo sviluppo dell’idea e delle pratiche performative dalle origini rituali del teatro fino alle performance interattive e al tecnoteatro contemporanei. Più precisamente, la Gemini unisce in modo puntuale e originale le teorie recenti dei sistemi sociali, gli studi di biologia cognitiva, l’analisi dei media con l’approccio estetico al divenire della ricerca artistica dalle avanguardie storiche alle arti performative multimediali. Un percorso che coinvolge inevitabilmente una riflessione sui modelli cognitivi e comportamentali, oggetto di studio antropologico e scientifico, e fa emergere tutta la complessità dell’arte del Novecento, che rompe gli argini dei generi e delle classificazioni. Forse proprio per sottolineare questa peculiarità sperimentale, l’autrice sceglie un titolo molto azzeccato (che cita Baudrillard): "l’incertezza creativa". Un’incertezza come segno non di debolezza o di confusione ma al contrario come capacità di interpretare e rivelare le contraddizioni del sociale e di rielaborarle creativamente. Incertezza come segno di apertura: diacronica, perché le arti performative mettono l’accento sul processo generativo dell’opera più che sull’opera stessa, in una consapevolezza dell’incompiuto che vale come necessità e garanzia di continuità; sincronica, perché le arti performative sono arti della relazione "hic et nunc" tra linguaggi differenti e tra performer e pubblico. Qui sembra trovarsi il nucleo centrale dell’interrogazione della Gemini: l’arte performativa che incontra i mass media e i new media tecnologici, quali modelli innovativi di comunicazione ed espressione genera? In che modo la performance divenuta tecnologica mette in discussione la tradizionale relazione di compresenza tra evento performativo e ricezione, individuale e collettiva? Come mutano, infine, in questa prospettiva di ridefinizione tecnologica dei linguaggi, i modelli comunicativi e creativi di interazione sociale? Sono domande centrali e molto impegnative a cui ovviamente l’autrice non pretende di rispondere con argomenti definitivi, ma accompagnandoci passo dopo passo attraverso le principali tappe evolutive delle performance artistiche, soprattutto teatrali.
La tesi che viene verificata sul campo è quella dell’esistenza di un "rapporto circolare fra la capacità perturbativa e irritativa dei media rispetto all’arte e dell’arte rispetto ai media". Alla fine di questo percorso, il lettore attento riesce a focalizzare alcuni principi particolarmente importanti e fecondi di sviluppi possibili, tra cui uno mi pare particolarmente rilevante: le pratiche performative tecnoteatrali o tecnoartistiche più evolute dimostrano che non c’è contraddizione tra tradizione (ad es. la cultura orale, la narrazione mitologica, la simbologia archetipica) e innovazione (la multimedialità, l’ipertestualità, l’interattività, la telepresenza). Tramite un progressivo coinvolgimento partecipativo della ricezione, che recupera l’esperienza plurisensoriale all’interno stesso del processo generativo della performance, l’arte prefigura la creazione di un "ambiente sensibile" universale dove la molteplicità dei modelli creativi della comunicazione interagiscano liberamente senza rimozione del corpo naturale e senza timore dell’interfaccia tecnologico. Che poi questo modello possa essere utopico e venga schiacciato o meno da quello puramente mercantile è purtroppo un’altra storia e un’altra sfida.
br>

Laura Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, Franco Angeli editore, Milano 2003, 192 pagine, euro 15,00.

 

 

 

N.46  (06.12.02)

 

Carmelo dopo Carmelo
Un convegno e una mostra dedicati a Carmelo Bene
di Andrea Balzola

 
A Torino, il progetto in tre puntate dedicato al grande artista pugliese:La vita e le opere di Carmelo Bene si è concluso con una mostra (a Palazzo Bricherasio dal 24 ottobre al 10 novembre) e il convegno Le arti del Novecento e Carmelo Bene (presso la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, dal 24 al 26 ottobre), dopo aver presentato in febbraio e marzo 2002 una completa rassegna cinematografica, video e sonora. L’intera iniziativa è stata organizzata dall’Associazione torinese ORSA (Organizzazione per la Ricerca in Scienze e Arti), animata da Edoardo Fadini, storico avventuriero del teatro sperimentale italiano e amico di lungo corso di Carmelo Bene, con la collaborazione dell’Università di Torino, del Centre National de Dramaturgie di Parigi, del Centro Studi del Tetro Stabile di Torino, dell’ASAC della Biennale di Venezia, e soprattutto della neonata Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene di Otranto.
Quest’ultima Fondazione è l’ultimo atto che Bene ha consegnato ai posteri, scrivendone lo statuto sul suo testamento e nominando segretaria la sua ultima convivente Luisa Viglietti e presidente Piergiorgio Giacché, nonché come membri permanenti i rappresentanti del Comune di Otranto e della Provincia, donando inoltre il suo prestigioso palazzo barocco di Otranto e tutto il suo patrimonio, artistico e non. Su questa eredità si annuncia però una battaglia legale tra i famigliari di Bene (moglie, figlia e sorella) e la Fondazione, che attualmente sta ultimando l’inventario del lascito. Un’eredità materiale perciò assai spinosa che sembra alimentare anche postmortem lo spirito polemico che ha sempre accompagnato C.B. e in qualche modo fa il paio con la controversa e complessa eredità artistica da lui lasciata. Proprio per discutere di quest’ultima eredità, sono stati chiamati a intervenire molti collaboratori artistici, critici e studiosi di Bene, con l’idea originale, anche se di ardua regia, di intrecciare le testimonianze dirette dei suoi compagni d’arte e di vita con approfondimenti teorici sui diversi e molteplici aspetti dell’opera di C.B.. Principale voce narrante del convegno è stata Lydia Mancinelli, l’attrice che ha condiviso un ventennio di vita e teatro con Carmelo, i suoi gustosi aneddoti "dietro le quinte" si sono mescolati a quelli di altri attori: Cosimo Cinieri, che ha rivendicato l’importanza della sua affinità "etnica" con C.B., Luigi Mezzanotte e Silvia Pasello che hanno affettuosamente e malinconicamente ricordato il loro debutto d’attori sotto l’impronta di un Maestro che non voleva esserlo. Con tono più ironico sono invece intervenuti il pittore di scene Tonino Caputo, altro complice "etnico" degli esordi e Salvatore Vendittelli, il primo scenografo di Carmelo, dal 1961 al 1971, il quale ha raccontato la genesi delle scenografie dei primi spettacoli. In particolare l’originalissima antologia teatrale di poeti minori italiani Gregorio: cabaret dell’800 del 1961, il cui finale con gli attori ammutoliti da un tampone tanto era piaciuto al Living che se n’era ispirato per la scena di un suo spettacolo. Vendittelli ha raccontato una collaborazione molto intensa fino alla rottura durante il progetto della Salomé cinematografica (poi realizzato da Gino Marotta), dalle sue parole è emersa la straordinaria capacità di Bene di intuire e stimolare le potenzialità creative dei suoi collaboratori e l’altrettanto irriducibile vizio di appropriarsene quale artefice unico e supremo. Mauro Contini, il montatore di fiducia di C.B., ha descritto le intuizioni, la sensibilità e il rigore con cui Bene affrontava l’uso e la sperimentazione degli aspetti tecnici, condizione per lui necessaria all’esplorazione espressiva. Se il drammaturgo Franco Cuomo ha ricordato la nascita, nutrita da infiniti cocktail, della riscrittura del Faust (Faust o Margherita, 1966) assai poco compreso dalla critica e censurato dai burocrati, eppure già molto significativo della vena grottesca dell’autore Bene, Luporini si è soffermato con la sua penetrante puntualità sulla collaborazione musicale con quella insostituibile voce polifonica che ha resuscitato i grandi poeti russi e italici. Sylvano Bussotti, un po’ a disagio in questo contesto celebrativo del genio di C.B., ha invece voluto ricordare il grande assente dal punto di vista di un altro genio, cioè lui, come ha tenuto più volte a precisare. Raccontando la prima apparizione al suo cospetto di un Carmelo performer giovane e seminudo, e poi di un costante scambio epistolare e artistico all’insegna di un rispecchiamento reciproco tra geni. In questo scambio, tra gli altri aneddoti, veniamo edotti anche di una reiterata e vana insistenza di C.B. affinché Bussotti si facesse tramite di un suo incontro con Beckett, misantropo proverbiale. Nicolini, ideatore dell’allegra eppur lucida stagione effimera dell’effimero, ha invece ricordato la sua complicità con la "leggerezza" provocatoria del Bene, primattore di attentati alla mummificazione istituzionale dell’arte e della cultura italiane.
Sull’altro versante, quello dei critici e degli studiosi, costretti a una parte meno conviviale e divertente, ma caricati della responsabilità di cominciare a tirare le fila del complesso arazzo artistico beniano, ci sono state alcune importanti defezioni rispetto all’affollatissimo programma d’interventi del convegno, ma anche numerosi contributi di rilievo. Tra i primi, quello di Franco Quadri, che ha riconosciuto, analizzato e valorizzato fin dagli esordi il lavoro di C.B., collocandolo precocemente sul versante storico-critico, senza le incertezze o le ostilità di molti suoi colleghi, come uno dei principali protagonisti dell’avanguardia teatrale italiana. Sergio Colomba ha concentrato la sua attenzione sul rovesciamento operato da Bene nel rapporto tra artista e critico, dove la tradizionale sudditanza del primo si trasforma in una feroce ma anche stimolante negazione dei contenuti e della stessa funzione (politica, culturale e di mercato) della critica. Giorgio Sebastiano Brizio, critico teatrale e d’arte, ha privilegiato la vena barocca dell’opera di Carmelo, come esempio di una dialettica forse insolubile tra istinto naturale e artificio creativo. Una testimonianza particolare sul primissimo Carmelo Bene, quello che appena ventiduenne esordiva con il Caligola di Camus (1959), è venuta dal critico d’arte Paolo Levi che ha ricordato l’amicizia che in quegli anni lo aveva legato a Bene e al regista Alberto Ruggiero, dimenticato regista del primo Caligola con Carmelo.
Mentre Sergio Fava, curatore dell’opera poetica di Carmelo, sì è soffermato in una dotta esegesi del suo lato autorale forse meno noto, Claudio Meldolesi ha approfondito il carattere peculiare dell’arte dell’attore Bene e del suo superamento aldilà della rappresentazione, Antonio Attisani ha rilevato come l’opera di Bene non sia da considerare uno straordinario fenomeno chiuso su se stesso, ma abbia segnato un punto di non ritorno, una netta linea di demarcazione dell’avanguardia teatrale. Lorenzo Mango ha invece attentamente approfondito uno degli aspetti più trascurati dalla critica italiana, cioè il lavoro di smontaggio e riscrittura della macchina drammaturgica. Italo Moscati ha invece polemicamente proposto di spogliare l’opera di Bene di tutti i filosofismi di cui lui stesso aveva amato rivestirla e corazzarla, soprattutto nell’ultimo ventennio, per la vanità di mettere un sigillo di garanzia intellettuale alla sua opera, già postuma in vita. In questo modo Moscati, sottolinea giustamente come il primo periodo "ruspante" di Bene abbia avuto una straordinaria vitalità creativa tutta interna al teatro, dove il nucleo della sua identità poetica si era già formato prima delle successive "sovrapposizioni" teoriche, ma condannando il fumo filosofico che lo avrebbe poi circondato fa di tutta l’erba un fascio. E’ infatti innegabile che l’incontro, l’amicizia e il confronto con dei giganti del pensiero come Lacan, Foucault, Deleuze e Klossowski, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, sia stato veicolo di un affinamento e di una fondazione teorica, per lo meno estetica, tutt’altro che irrilevante, sia pure rispetto a un processo artistico già maturo. Maggiori riserve possono piuttosto riferirsi alla stagione ultima, in cui Bene edificava il suo monumento all’assenza con l’ausilio di una trincea teorica piuttosto estenuata ed estenuante. Ancora più controtendenza è stato l’intervento di Ruggero Bianchi, che nel nome di una passione delusa per il primo Bene, ha invitato a non celebrare acriticamente il suo genio, ma anzi a metterlo sotto processo critico per distinguere le qualità realmente innovative della sua opera dai molti errori e contraddizioni che le avrebbero inquinate, contestando soprattutto la sua idea, di matrice romantica e decadente, dell’artista chiuso ermeticamente nella sua torre d’avorio e isolato dalle nefandezze del mondo. L’unica presenza internazionale del convegno (Jean Paul Manganaro, curatore della prossima edizione francese delle opere di Bene, ha inviato una relazione sul "Corpo devastato di C.B.") è stata quella di Camille Dumoulié, docente dell’università di Nanterre e una delle ultime acquisizioni della squadra filosofica di Carmelo (quella da lui riunita alla Biennale di Venezia). Con la sua relazione "C.B. e lo splendore del vuoto" ha limpidamente precisato, con impliciti riferimenti ai principi filosofici orientali già cari a John Cage, come doveva intendersi la vocazione ultima di Carmelo allo svuotamento della scena e alla cancellazione dello spettacolo. Infine, alcuni interventi hanno riportato l’attenzione su una parte meno nota e studiata dell’opera di Bene, ma altrettanto importante e per certi versi anche più innovativa del lavoro teatrale: le regie radiofoniche (spesso poi riutilizzate parzialmente o integralmente come colonne sonore degli spettacoli teatrali) e televisive. Sulle prime, ha offerto la sua testimonianza Alessandro D’Amico, oggi Presidente dell’Istituto degli Studi Pirandelliani e all’epoca referente di C.B. in Rai, raccontando la rivoluzione tecnica, stilistica e anche comportamentale portata negli studi Rai, trasformati da Bene in accampamenti e banchetti, laboratori di inedite e fecondissime alchimie vocali e sonore. Roberta Carlotto, che è stata la lungimirante e coraggiosa traghettatrice produttiva dei protagonisti dell’avanguardia teatrale italiana (Quartucci, Ronconi, Bene) nella rai riformata degli anni Settanta, ha descritto in particolare la problematica avventura televisiva di Bene: Majakowskij, Blok, Esenin, Pasternak, Un Amleto di meno, Riccardo III e l’incompiuto Otello. La relazione del regista Rai Sergio Ariotti si è concentrata proprio sul racconto delle vicissitudini della realizzazione dell’Otello televisivo, alle cui riprese il sottoscritto ha potuto assistere e che hanno segnato – come ho spiegato nella mia relazione – un momento fondamentale anche se ancora misconosciuto di esplorazione artistica e di rifondazione di un nuovo linguaggio televisivo. Il convegno è stato accompagnato da una mostra un po’ improvvisata di vecchie fotografie, locandine e articoli, dov’erano però visionabili alcune opere video e cinematografiche di Carmelo e i bei costumi di scena del Pinocchio. Altre proiezioni inedite o quasi hanno arricchito il convegno, tra le quali le surreali riunioni del Consiglio di Amministrazione della Biennale di Venezia, dove un Bene più che mai attore-imbonitore arringava gli attoniti membri con la giustificazione filosofica del suo azzeramento della Biennale Teatro stessa, ultima occasione volutamente mancata da Bene per creare un evento autentico nella desertificazione del teatro italico. A conclusione di questo convegno, anarchico ma comunque foriero di notizie e spunti di riflessione (si prevede in proposito una pubblicazione degli atti) sono state presentate o proposte alcune iniziative degne di nota. Gioia Costa ha illustrato il progetto in corso da parte della rivista e sito Romaeuropa News di raccogliere organicamente le testimonianze dei compagni d’arte e di pensiero di C.B. per arrivare a una prima pubblicazione di riflessione, bilancio e rilancio della sua opera. Edoardo Fadini ha segnalato l’intenzione della sua Associazione di proseguire nella raccolta di materiali documentari in collaborazione con il Dams dell’Università di Torino, che vuole dedicare un progetto di studio di lungo respiro all’opera di C.B., e in collaborazione con la Fondazione L’Immemoriale di C.B., di cui Giacché ha illustrato l’ipotesi di alcune prossime iniziative: l’organizzazione di un concerto di musica barocca in occasione del primo anniversario della morte di C.B., l’organizzazione di alcuni seminari con i tecnici che hanno collaborato con lui e che sono quindi depositari concreti delle sue sperimentazioni tecnico-creative, il restauro e la digitalizzazione di tutte le opere e documenti audio, cinematografici e video, la riedizione di opere ormai introvabili e l’esportazione internazionale dell’intero lavoro di Bene. Progetti questi che speriamo possano essere effettivamente realizzati, incontrando l’adeguato sostegno di sponsor pubblici e privati. Dai presenti al convegno è venuto anche un accorato appello in favore di un altro grande protagonista dell’avanguardia teatrale italiana, amico e compagno di strada di C.B., Leo De Berardinis, la cui vita è sospesa a un filo ormai da molti mesi. Considerando le spese sempre più insostenibili di assistenza sanitaria e dei tentativi di cura, i presenti hanno richiesto a tutte le compagnie teatrali italiane, per la stagione in corso, di dedicare a Leo l’incasso di una serata di spettacolo. Un contributo generoso e anche doveroso di solidarietà a una figura ormai storica del teatro italiano. (ma sull'iniziativa a favore di Leo e sui suoi sviluppi, vedi il forum Fare un teatro di guerra).
 

 

 

N.44  (28.10.02)

 

Un Mediterraneo interattivo
Le nuove videoinstallazioni interattive di Studio Azzurro a Castel S. Elmo di Napoli
di Andrea Balzola

 
Il 19 ottobre, nel suggestivo e labirintico castel Sant’Elmo sulla collina del Vomero, si è inaugurata la mostra "Meditazioni Mediterraneo": cinque videoinstallazioni interattive ideate e realizzate da Studio Azzurro, prodotte dalla Maison Hermès in collaborazione con la Soprintendenza Speciale per il Polo Museale di Napoli. Un viaggio d’immagini e di suoni nella mappa del mediterraneo, in particolare nel faccia a faccia tra il Golfo di Napoli e la costa nordafricana. Un viaggio che sarebbe piaciuto a Fernand Braudel, il primo storico a mettere in luce la vitalità complessa, dirompente e assai longeva delle civiltà del Mediterraneo. Una stratificazione di identità culturali e linguistiche, ma anche – come suggerisce Studio Azzurro – di materie, suoni, colori, odori e gesti. All’ingresso della mostra, in una sala circolare, 16 monitor scandiscono con ritmo rapido e dettagli di mani e materie lavorate, le impronte video dei mestieri artigianali che plasmano l’humus di una civiltà minacciata, ma non ancora estinta dalla globalizzazione. Una mappa diaproiettata di questo mediterraneo introduce il visitatore al percorso vero e proprio, è l’ingrandimento di uno dei disegni progettuali di Paolo Rosa che traccia le traiettorie dei venti, ma anche delle vie del sale, della seta, delle spezie e delle armi. Anche in questa mostra, viene confermato e sviluppato il carattere distintivo della ricerca artistica di Studio Azzurro, che attraversa ormai da un ventennio i territori delle arti visive, del video, del cinema e del teatro, senza farsi intrappolare in nessuno di essi, cercando invece – e spesso trovando – una chiave originale d’intreccio dei diversi codici espressivi. L’occasione espositiva diventa allora una messa in scena dei linguaggi, dove lo spettatore diventa attore di un percorso percettivo e cognitivo inedito e interagisce con i percorsi creativi degli autori, aperti alle vitali metamorfosi del senso e dei sensi. La strategia è limpida: creare nei luoghi prescelti una rete videosonora di cattura dell’essenza degli elementi naturali e dell’opera degli uomini del mediterraneo, aggregando i nuclei tematici in micronarrazioni (i gesti che danno forma alla materia, il confronto/scontro tra gli elementi, l’intreccio babelico delle lingue che si sublima nel canto, etc.), poi fare un rigoroso lavoro alchemico di distillazione e trasformazione dei materiali con un’innovativa postproduzione digitale, infine ricomporre nell’interfaccia espositivo le tappe di quel viaggio, allestendo una costellazione di paesaggi "sensibili" (interattivi) che ci chiamano dentro l’immagine e il suono e provano a fare di noi, almeno per un momento, dei viaggiatori sinestetici. Ripercorriamo queste tappe.



1. "Il vento porta i profumi".
E’ forse la videoinstallazione più poetica e originale della mostra. Qui il video interpreta il paesaggio e un finissimo lavoro di postproduzione digitale ne ridipinge luci e colori, ma anche ne plasma la materia, come se l’immagine di per sé immateriale trovasse una nuova consistenza mutante. L’agente di questa mutazione è uno sciame d‘api virtuale (attivabile dallo spettatore) che "attacca" il paesaggio, sfigurandolo. Nei quadri che si susseguono su doppio schermo, appaiono deserto e campi e un’immagine emblematica del percorso di Studio Azzurro: quella di un pittore che dipinge "en plein air" un paesaggio mediterraneo, le sue pennellate scivolano sul cielo. Qui pittura, fotografia, cinema, video e computer si stratificano in una sola immagine in costante trasformazione. E’ ovviamente un omaggio a Van Gogh, e anche al "sogno" cinematografico di Kurosawa che faceva rivivere il grande pittore olandese dentro il suoi stessi quadri. Non a caso, l’immagine simbolo della mostra, che compare sulla copertina del libro-catalogo e sulle locandine, è un cavalletto in riva al mare che supporta un mirino elettronico, citazione vertoviana ma anche omaggio alla pittura "en plein air" che da Van Gogh in poi s’immerge nel paesaggio per rubarne l’anima.
 
2."Il vuoto scritto dalla luce".
Attraversando una traccia luminosa interattiva, le inquadrature su doppio schermo di un deserto o di una spiaggia con ruderi, si avvicinano bruscamente, quasi risucchiandoci nel vuoto della grande sabbia e della grande acqua.



3. "La terra genera l’aria".
Attirati dal vapore e dal fumo che scaturiscono dalle ferite incandescenti del Vesuvio (su una videoproiezione verticale creata da tre schermi), il peso del nostro passo fa vibrare l’immagine, indizio inquietante dell’instabilità della terra, vibrazione tellurica generata da vibrazioni tattili e sonore, che rievoca le avventure di uno strano vulcanologo, un ascoltatore di vulcani.
 
4. "Il colore si annoda al suono".
Ancora il nostro passo può calpestare un tappeto "sensibile" (dove dei sensori nascosti attivano le videoproiezioni), e mutare così una tavolozza di colori e sapori che attraversano le porte dei sensi e creano una spirale di suoni, un canto.
 
5. "L’acqua si ferma nel sale".
Un’altra videoproiezione interattiva su due schermi, rivela come il deposito del sale sia la relazione alchemica tra mare e terra.
Al centro di questo circuito, su una delle ripide scale che portano ad affacciarsi sul golfo di Napoli, Studio Azzurro ha voluto creare una dissonanza (che forse avrebbe meritato maggior rilievo simbolico) all’interno di questo sua sinfonia audiovisiva del mediterraneo: "Eveline". Cinque "cartoline" video in bianco e nero che ripropongono la terribile documentazione dello strazio contemporaneo: la marcia infinita dei profughi affamati, le case distrutte dalla guerra con il massacro dei civili, la cementificazione del paesaggio, i carri armati nelle strade, le navi carretta dei clandestini. Un menu del dolore che continua a essere servito quotidianamente sullo schermo sempre troppo distratto e indifferente delle nostre case. Ed è anche con quella sofferenza che noi dovremo imparare ad essere più interattivi.


Meditazioni Mediterraneo
In viaggio attraverso cinque paesaggi instabili
Castel Sant’Elmo, via Tito Angelini, 20 – Napoli
Dal 20 ottobre al 17 novembre 2002
Apertura tutti i giorni, tranne il lunedì, 9-18
Catalogo pubblicato da Silvana Editoriale
Sito web: www.studioazzurro.com/mediterraneo.

 

 

 

N.38  (10.07.02)

 

Symphonie Videofantastique
Berlioz e la Fura dels Baus
di Andrea Balzola

Prima mondiale al Teatro di Verdura a Palermo (28 e 29 giugno 2002)
 

Foto Studio Camera.
 
Scheda tecnica dello spettacolo:
Regista Pep Gatell,
Direttore musicale del palcoscenico: Jaume Cumplido; Produzione esecutiva: Roberto Villalon; Preproduzione: Nadala Fernandez; Direzione tecnica e scenografica: Lluis Monteagudo; Realizzatore video: Jordi Joachim Recort; Light designer: Jaime Llerins; Coreografo: Pere Jané; Scene e costumi: Mabel Gutiérrez; Tecnico luci: Lluis Marti; Tecnici video: Joan Rodòn e David Larrull (BAF); Audio consulting: Marc Sardà; Trapezista Fura: Pilar Cervera; Attori: Vidi Vidal, Ramòn Tarés, Tatin, Ivan Altimira, Neus Quimansò, Gloria Ràmia e Pirana; Comparse del Teatro Massimo; Direttori artistici della Fura: Pep Gatell, Miki Espuma, Jurgen Muller, Alex Ollé, Carlos Padrissa, e Pera Tantinà; Orchestra del Teatro Massimo, diretta da Jean Claude Casadeus.
 
 

Foto Studio Camera.
 
Hector Berlioz innamorato, e da tale amore reso poi furioso, incontra la Fura dels Baus in una delle sinfonie più visionarie della storia della musica. L’incontro è avvenuto in anteprima mondiale nello splendido scenario di fontane e alberi del Teatro di Verdura a Palermo, nell’ambito della stagione estiva del Teatro Massimo, con fuochi d’artificio finali. Un incontro favorito dalle imminenti celebrazioni del musicista francese e doppiamente inedito: per l’idea di associare alla sua opera più nota la dimensione visiva di un’azione teatrale combinata al video, e perché questo allestimento apre un nuovo percorso della Fura in un territorio molto più composto e tradizionale come quello del teatro musicale. Una Fura quindi per la prima volta contenuta - e trattenuta - in una canonica scatola scenica, per di più occupata dall’orchestra diretta da Jean Claude Casadeus, e particolarmente attenta a non prevaricare sulla musica. Anche l’inserimento del video sotto forma di un fondale con un grande schermo che campeggia alle spalle dell’orchestra, non sembra a prima vista discostarsi da una pratica ormai consolidata di concepire il video come scenografia. Poi il fantasioso uso delle cantinelle per calare a sorpresa trapezisti, oggetti scenici, e schermi, reinventa una tridimensionalità della scena che avvolge la musica senza mai oscurarla. Si realizza così una sorta di incontro del destino, dove l’immaginario cyberbarocco della Fura catalana, con il video e un ensemble di trapezisti e attori, dà immagine e corpo alla fantasia oppiacea - oggi diremmo psichedelica - del compositore francese. In effetti, tra i principali riferimenti letterari di Berlioz si trovano proprio le celebri “Confessioni di un oppiomane” di Thomas de Quincy, e l’intento tematico appare dichiarato fin dal sottotitolo della sinfonia: “Episodi della vita di un artista”, cioè quello di raccontare musicalmente il viaggio di un artista nell’oscuro territorio onirico dei dannati dell’amore. Un viaggio permeato da una visione romantica e simbolista dove la musica - non meno della poesia - è l’atanor alchemico che trasforma la follia in ispirazione, esplorazione dell’abisso e dell’estremo per nutrire di verità e di forza espressiva l’anemia delle arti. Nel programma di sala che accompagnava il debutto della sua sinfonia, avvenuto il 5 dicembre 1830, Berlioz titolava in modo significativo i cinque movimenti che la componevano: Reveries, passions; Un bal; Scene aux champs; Marche au supplice; Songe d’une nuit du Sabbat. Ed è da questi motivi tematici che scaturiscono le sequenze spettacolari ideate dalla Fura, dense di riferimenti pittorici, cinematografici e letterari, venati da un’irriverente ironia, non sempre raccolta dal pubblico talvolta troppo posato delle platee musicali. Il nucleo visivo conduttore del video vede contrapporsi il compositore stesso, che ha un aspetto angosciato, iperteso e stralunato (un po’ alla Marty Feldman), e l’icona edulcorata e irraggiungibile della sua bella.
 

Foto Studio Camera.
 
Nel primo movimento, la prima folgorante visione di Hariette sorge dai fumi dell’oppio, con divertite citazioni teatrali e cinematografiche di Frankestein e Dracula, figure mitiche della corruzione romantica dell’anima e del corpo divenute qui efficaci maschere ironiche di un desiderio ossessivo, vorace e morboso che diventa infine mostruoso. Nel secondo movimento, lo sguardo voyeuristico di Berlioz, che intravede l’amata danzare in una festa, si moltiplica in una serie di schermi mobili e sospesi che si sovrappongono fra loro, creando un contrappunto visivo tra immagine della percezione, immagine del desiderio e immagine della memoria. Una spirale visiva che culmina in un acrobatico e spassoso duetto di trapezisti, con Berlioz che tenta invano di afferrare in volo la sua amata. Nel terzo movimento, il più complesso di riferimenti, s’intrecciano più livelli visivi e simbolici. Siamo immersi nel mito romantico della natura, una natura che vediamo sullo schermo magicamente animata dalla musica, capace con la sua passionalità di smuovere le pietre e la terra. La natura diventa rifugio proiettivo della memoria e dell’immaginario, crepuscolo contemplativo che si concentra e si perde nel misterioso Angelus dipinto da Millet, che la Fura fa rivivere sullo schermo elaborando una stratificazione allegorica di visioni: l’immagine originale, la reinterpretazione di Salvador Dalì, e l’animazione teatrale del dipinto, dove Berlioz seppellisce insieme alla sua bella nel campo di Millet un neonato bambolotto, simbolo grottesco di un amore nato morto. Nel quarto movimento la febbre immaginifica di Berlioz sale, e qui la Fura si diverte nel gioco del contrasto, mescolando sulla traccia musicale le scenette quotidiane e rassicuranti di Hariette che fa un picnic o che guarda la televisione, con le sequenze dionisiache di un impetuoso assalto carnale. Finché l’ossessione erotica spazza ogni impossibile pace dei sensi e il sogno muta in incubo: la gelosia arma la mano dell’artista che uccide l’amante di Hariette e lo condanna al supplizio della ghigliottina. Una ghigliottina che la Fura porta in scena sotto forma di un macabro talamo nuziale. Il quinto movimento è il seguito grandguignolesco di quest’incubo, l’artista ritrova Hariette al suo funerale ma è trasfigurata, gli appare come una volgare prostituta in mezzo a un corteo diabolico di mostri e streghe che danzano intorno alla sua bara. A questo punto l’orrore trabocca dallo schermo per riversarsi sulla scena: all’ombra di una cattedrale gotica oscilla appesa a una corda la discinta Hariette trapezista, suonando con il peso del suo corpo la campana a morto, mentre le note del Dies irae si levano dagli spiriti infernali annunciando l’inevitabile dannazione dell’artista. L’azione teatrale si fa vera e propria coreografia, con una folla di comparse che creano una passerella umana per la sfilata e il trionfo di procaci streghe, protagoniste di un grottesco sabba che ricorda certi balletti del varietà televisivo. Ammucchiata di corpi che esaltano il climax finale della sinfonia, che esplode poi - a insaputa di Berlioz - nel botto spettacolare di un fuoco d’artificio. Spettacolo insolito per il pubblico palermitano che applaude un po’ disorientato. La sinfonia videofantastica di Berlioz e della Fura è generosa di invenzioni ma procede nell’ardito e precario equilibrio del trapezista sul filo, da una parte il rischio è quello di ridurre l’astrazione della musica a un’eccessiva concretezza dell’interpretazione visiva, ulteriormente fissata dalla Fura in una chiave prevalentemente ironica, dall’altra parte il rischio è quello di ancorare troppo allo spartito la dirompente fantasia del gruppo catalano, come una fiera in gabbia e con lo smoking. Si capisce che la scommessa mira a far entrare la Fura nel circuito molto più vasto e ricco del teatro musicale, distillando innovazione tecnoteatrale e invenzione scenica - di cui senza dubbio la Fura resta uno dei principali artefici di questi anni - su una scena più istituzionale e dal mercato più certo. Impresa legittima e forse anche utile per bucare una quarta parete particolarmente resistente alla sperimentazione - in Italia da tempo ci si prova con alterne fortune, da Ronconi a Corsetti, Studio Azzurro e Raffaello Sanzio - ma che deve essere intrapresa con molta attenzione per evitare che la soluzione scenica multimediale entri dalla porta spalancata della moda e dell’effetto speciale, una porta affacciata su un destino manierista, ma piuttosto penetri tra le maglie strette del senso e della sinestesia che apparenta i linguaggi. Questa è la scommessa più difficile e più vera che dovrebbe interessare la Fura e non solo.
 

Foto Studio Camera.

N.35 (23.05.02)

 

La ri-scrittura drammaturgica di Luca Ronconi
Ripensando al Pasticciaccio e ai Fratelli Karamazov
di Andrea Balzola

Nella stagione 1995/96, Luca Ronconi, all’epoca direttore del Teatro di Roma, mette in scena al Teatro Argentina Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda e due anni dopo, nella stagione 1997/98, I fratelli Karamazov di Dostoevskij. La scelta aveva un senso evidente e persino dichiarato: partire dalla grande letteratura per ripensare e ridefinire la drammaturgia contemporanea, incagliata in una crisi che da molti decenni ormai vive rarissimi sprazzi di luce. Un’altra motivazione, meno dichiarata ma trasparente nel lungo e densissimo percorso registico di Ronconi, era la sfida all’irrappresentabile. Fin dall’Orlando Furioso, attraverso Ignorabimus di Holz, per giungere agli Ultimi giorni dell’umanità di Kraus e approdare ai più recenti “infiniti matematici”, il testo sembra valere per Ronconi in proporzione alla sua complessità, perciò alla sua difficoltà di messa in scena. Il fatto che l’operazione gli sia quasi sempre riuscita, in modo spesso straordinario e sorprendente, lo ha spinto naturalmente ad alzare ogni volta il tiro nel suo duello con la pagina scritta. Come se la vocazione inespressa di Ronconi iniziasse proprio dalla pagina, strappata quindi all’autore e riscritta sulla scena, in un minuzioso lavoro di estrazione del sottotesto e di immaginifica materializzazione del suo spazio simbolico. Già in passato avevo tentato una lettura della processualità ronconiana, dal testo alla scena: “Ronconi inizia dalla mancanza, da ciò che il testo contiene ma non esprime; fecondato dalla sfasatura tra voce (pienezza inarticolata del senso) e linguaggio (messinscena del senso) - la cosiddetta anomalia creatrice - Ronconi indaga ermeneuticamente l’inconscio testuale (soprattutto la spazialità nascosta) con gli strumenti analitici della lettura filologica e simbolica, e con quelli sintetici dell’intuizione registica. Lo spazio dell’interrogazione del testo diventa così lo spazio simbolico nel quale interagiscono la scrittura testuale dell’autore e la progettualità scenica del regista, finché sorge lo spazio creativo della messinscena vera e propria. Questo spazio ludico - sempre eccedente - istruisce il codice specifico (ogni volta diverso) della recitazione degli attori e della macchina scenica. (...) Ronconi trasforma il testo in congegno teatrale.
Una lettura che mi pare confermata dalle due messinscene del Pasticciaccio e dei Fratelli Karamazov, emblematiche prove di come un testo letterario possa trasformarsi in un testo teatrale senza perdere la sua identità - soprattutto con Gadda pareva davvero improbabile - rivelando anche come una sorgente essenziale del teatro si trovi ancora nella ricchezza del linguaggio. Una ricchezza ormai surgelata nello stereotipo, consumata dalla replica o vietata dal dogma odierno - di natura commerciale - che professa la parola piana, naturalistica come la cronaca (come se la cronaca non fosse artificio e menzogna), indifferenziata e facile alla lettura distratta. Ronconi non ci sta, con coraggioso “anacronismo” pensa ancora alla parola, e crede in una parola capace di pensare e far pensare. Di qui la sfida: com’è possibile far rivivere sulla scena un’opera così densa come quella gaddiana, che dall’intreccio poliziesco trabocca in un flusso narrativo affollato, almeno in apparenza magmatico, linguisticamente esuberante e stratificato, ritmicamente modulato di toni, timbri e colori vividissimi? Ronconi rispondeva, nel programma di sala, partendo da lontano, parlando di quella che secondo lui è la primaria funzione del teatro: “strumento di conoscenza maturata attraverso l’esperienza.”
Il “giallo” di Gadda, scritto a più riprese dal 1946 al 1957, ha un nucleo drammatico forte: nella Roma fascista del 1927 si consuma un efferato delitto di difficile soluzione. La vittima è una donna benestante e generosa, ossessionata da una mancata maternità che la porta a ripetuti e infelici tentativi di adozione di ragazzine povere e problematiche. Il commissario, dibattuto in intricate situazioni e psicologie, giunge quasi accidentalmente alla rivelazione dell’assassina, ma il finale nella versione definitiva del romanzo (come nella trasposizione di Ronconi) resta sospeso alla sua intuizione. Come diceva lo stesso Gadda, “la narrazione è condotta in modo che i lettori vengano frastornati, non più e non meno degli indagatori”, e “il nodo si scioglie ad un tratto, chiudendo bruscamente il racconto.” Se inizialmente Ronconi pensava di appoggiarsi al trattamento cinematografico (Il palazzo degli orrori) che Gadda realizzò per una committenza poi abortita, abbandonò subito quella mediazione, perché della scrittura gaddiana non era tanto la struttura drammatica a interessarlo, quanto l’esuberanza affabulatoria, l’originale eppure radicatissima visionarietà, intrisa di ironia analitica, l’universo molteplice e aleatorio delle vicende individuali mescolate negli eventi collettivi, la ricchezza del sottotesto. La chiave registica era principalmente una, dalle conseguenze rilevantissime: usare la forza stessa del testo per superare l’opposizione tradizionale tra racconto in terza persona, specifico della scrittura letteraria, e battuta dialogica, specifica della scrittura drammaturgica. Gli attori recitavano la battuta anticipandola e/o commentandola con la descrizione narrativa dei gesti e degli stati d’animo, senza soluzione di continuità tra la prima persona e la terza. L’effetto produceva nello spettatore una dilatazione temporale e psicologica dell’azione e del dialogo. Senza ricorrere allo straniamento brechtiano, Ronconi introduceva nella parola teatrale lo spazio intermittente della riflessione. Questo doppio registro potenziava tanto l’attenzione dell’attore al suo eloquio e al suo gesto, quanto quella dello spettatore al divenire del personaggio. La recitazione era così pilotata in un difficile equilibrio tra la tensione drammatica e l’accentuazione ironica, in uno sfumato chiaroscuro tra interiorità ed espressione (da ricordare in particolare Franco Graziosi nei panni del commissario). La musicalità e i colori - inflessioni e idiomi - la modulazione barocca della lingua gaddiana, asciugate dalla puntuale ironia che l’autore stesso porta nella parola e Ronconi nel tono e nel gesto, emergevano dal testo in una visione e in un ascolto avvolgenti, labirintici e trasfiguranti. Questo flusso narrativo s’inseriva in una scandita geometria scenica, dipinta con luci e colori evocativi della stagione pittorica romana degli anni venti-trenta (con un finale un po’ casoratiano), e abitata dai movimenti quasi coreografici degli attori. Una rigorosa unità ritmica dava una pulsazione costante, in levare, all’evento scenico, con una modalità “cinematografica” (ricorrente in Ronconi) di passaggio dal totale delle scene collettive al primo piano ritagliato dalla luce, ai mutamenti di prospettiva, al montaggio delle sequenze narrative con apparizioni e sparizioni di oggetti e personaggi da botole e trampolini. Di questo maestoso affresco della modernità rimangono nella memoria alcune eclatanti invenzioni teatrali: dalla keatoniana caduta della facciata della “Casa degli o(rro)ri” sui suoi inquilini, alla zombiesca permanenza e vitalità della vittima sulla scena dopo la sua uccisione; dalla splendida invettiva lirica dello Sbandato sul regime, illustrata dalla “danza” delle giovani (e giovini in gonnella) italiane sotto la protezione pater-fallica del busto del Duce, alla trasformazione del commissariato in un bordello.
Sul piano tematico, Ronconi resta fedele a Gadda e rilancia: appare evidente che non c’è soluzione di continuità tra il disperato arrangiarsi del “popolino”, l’avida ipocrisia della borghesia romana e il trionfalismo di cartapesta del regime, che fa da sfondo scenografico ed insieme ne incarna l’essenza culturale. Così lontano dalle domestiche trame eppure così radicato in quei cassetti e armadi dove si nascondono piccoli tesori e grandi meschinità. La stessa colpa della vittima sacrificale, madre idealmente perfetta eppure mancata, si innesta come caustica metafora in un regime dove l’apologia patriottica della fertilità e della proliferazione demografica si giustificava nella vocazione guerrafondaia, nel populismo autoritario e un sogno abortito quanto impotente d’imperiale statura. Fantasmi di ieri, oggi non riproducibili, ma di cui si tenta il revisionismo, e che permangono perciò come inquietanti radici di tentazioni plebiscitarie, di programmatiche ipocrisie, di pruderie totalizzanti ed egemoniche. Di qui il possibile rigurgito d’attualità di certa spietata quanto minuziosa radiografia gaddiana, che Ronconi con il suo allestimento aveva segnalato, con un anticipo che da tempo è una delle sorprendenti caratteristiche delle sue scelte testuali.
Dopo lo straordinario allestimento del Pasticciaccio, Ronconi ritorna alla grande letteratura montando a tempo di record, in poche settimane, sempre sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma, una fedelissima edizione teatrale de I fratelli Karamazov di Dostoevskij (nella traduzione per l’Einaudi di Agostino Villa). Impresa che, di nuovo, registra pochi precedenti, il più illustre è quello di Jacques Copeau nel 1911, ripreso più volte da lui stesso e dai suoi collaboratori, fino al grande successo dell’edizione italiana del 1953 con la Compagnia Stabile Teatro di Via Manzoni di Ivo Chiesa e la regia di André Barsacq, protagonisti d’eccezione Memo Benassi (Fedor), Enrico Maria Salerno (Ivan), Gianno Santuccio (Dmitrj), Glauco Mauri (Smerdjakov), Davide Montemurri (Alesa) e Lilla Brignone (Grusen’ka). Meno fortunate furono le due precedenti versioni italiane, del 1934, a cura di Carlo Grabner ed Enrico Raggio, con la Compagnia di Kiki Palmer diretta dal russo Peter Sharoff, e del 1940, voluta da Anton Giulio Bragaglia nel suo Teatro delle Arti, con un testo realizzato da Corrado Alvaro e pur grandi interpreti come Salvo Randone (Dmitrij) e Lina Volonghi (Grusen’ka).
Nella versione di Ronconi, il testamento letterario e l’opera del genio russo si trasformano in un progetto di spettacolo a puntate, sviluppato in tre parti autonome ma consecutive di circa quattro ore ciascuna: I lussuriosi, Il Grande Inquisitore, Un errore giudiziario. In realtà, mentre le prime due parti sono andate in scena nel febbraio del 1998, la terza parte, che doveva seguire la stagione successiva, non è mai stata allestita. La monumentalità dell’impresa questa volta spinge Ronconi a rinunciare alla consueta magnificenza delle scene per concentrarsi sull’arazzo drammaturgico e sulla prova degli attori. Un gioco semplice a vedersi ma molto complesso a farsi (con decine di tecnici che lavoravano febbrilmente nel “sottosuolo” del palcoscenico e dietro le quinte), di dilatazioni e contrazioni spaziali, ottenute con sottili, talvolta trasparenti quinte dipinte, aperture e chiusure di botole, scorrimenti meccanici degli oggetti e degli arredi di scena. Poi improvvise e raffinate citazioni pittoriche, come il cadavere disteso dello Starec Padre Zosima (Antonio Piovanelli) che evoca il Cristo nel sepolcro di Holbein il Giovane o come la raffaellesca madonna contadina (Manuela Mandracchia) della povera famiglia di Nikolai Il’ic Snegirev (Stefano Jacovelli), o ancora, un Cristo enigmatico e muto di memoria tizianesca. Una dimensione pittorica, decadente e livida, che ispira tutte le scene di Margherita Palli e le luci di Sergio Rossi, e che sostiene la parola di Dostoevskij senza anacronistici naturalismi, ma anche senza forzature espressioniste o effetti spettacolari. Come dicevamo, protagonista assoluto rimane il testo, che Ronconi adatta alla scena rispettandone il più possibile la lettera e la struttura, rimescolando soltanto la cronologia degli eventi, in alcune particolari circostanze, ad esempio anticipando all’inizio della seconda parte, come un flash-forward, la morte di Fedor Pavlovic Karamazov (Corrado Pani), per metterla in relazione con la dipartita dello Starec Zosima. Il romanzo, già originariamente concepito a puntate secondo il genere feuilleton, ha uno svolgimento discontinuo che sposta l’attenzione di volta in volta su situazioni e personaggi diversi. Così Ronconi, per mantenersi fedele al testo originale, sceglie di montare lo spettacolo per quadri autonomi, dove i personaggi appaiono e scompaiono, anche per lungo tempo; vivono su binari paralleli che solo ogni tanto s’incrociano, e ritornano perciò ogni volta diversi. Un impegno ulteriore per i protagonisti era perciò quello di riconquistare ogni volta sulla scena il proprio personaggio, oppure, per gli altri attori che interpretavano ciascuno più ruoli minori, di rendere plausibile il nomadismo tra personaggi diversi. Più semplice invece, rispetto a Gadda, è stata la trasposizione teatrale dei dialoghi, perché nel romanzo russo sono già presenti in forma diretta. La grande forza drammaturgica dell’adattamento ronconiano sta qui soprattutto nel privilegiare i confronti diretti tra i personaggi, che si consumano come duetti d’amore e di disperazione (memorabile il dialogo tra i due fratelli Dmitrij-Massimo Popolizio e Alesa-Daniele Salvo nella quinta scena della prima parte, o tra i due fratelli Alesa e Ivan-Giovanni Crippa nella seconda parte, preludio dell’episodio del “Grande Inquisitore”); oppure si rivelano duelli atroci, come quello tra le due rivali Katja-Galatea Ranzi e Grusen’ka-Viola Pornaro nella prima parte. Ronconi esalta il nucleo centrale della poetica dostoevskijana nel sublime episodio metatestuale del “Grande Inquisitore”: la tensione insolvibile tra il bisogno della fede e la lucida disperazione laica, tra vocazione spirituale e natura lussuriosa, tra passione e distruzione, tra amore ed egoismo. I fratelli Karamazov e il loro dissoluto genitore incarnano appunto gli aspetti contraddittori ma indissolubili, sia della singolare personalità e vicenda biografica dello scrittore russo sia dell’universale natura umana, di cui egli fu uno dei più acuti interpreti. Ciò che più, ed ancora, affascina della sua scrittura è la capacità di affrontare i “grandi temi” con uno “stile alto”, conservando la “ferocia” realistica necessaria all’autenticità e all’emozionalità del racconto. È appunto questo che Ronconi cercava sul piano drammaturgico. Lo aveva già detto a proposito della trasposizione di Gadda e con i Karamazov lo ribadisce: spostarsi verso la grande letteratura non significa negare la drammaturgia contemporanea, ma contribuire da una prospettiva registica e con una straordinaria esperienza della scena ad indicare dei modelli per una rigenerazione della scrittura drammaturgica. La quale dovrebbe, nella visione di Ronconi, sforzarsi di uscire tanto dall’attualità della cronaca, quanto dall’asfittico intimismo pseudo-psicologico, come anche dall’astrazione intellettuale e linguistica. Dal Pasticciaccio e dai Karamazov emerge un chiaro modello di rifondazione drammaturgica, che fa indirettamente ma inesorabilmente da specchio critico alla scrittura teatrale attuale, in particolare quella italiana (resa però debolissima dalla mancanza di occasioni e di verifiche produttive), troppo ancorata a moduli ipercodificati, a una lingua fredda, né reale né inventata, lontana dal colore drammatico e poetico del vissuto, insomma imprigionata in un respiro corto dell’idea e del linguaggio.
Nell’equilibrio delle parti della trasposizione teatrale del grande romanzo russo, la prima risultava più serrata e più corale, mentre la seconda appariva più frammentata. La continuità del secondo episodio era sostenuta dalla lacerante sospensione del monaco Alesa, tornato nel mondo “lussurioso” e profano della sua famiglia e della sua comunità su consiglio del padre spirituale Zosima, per svolgervi un’impossibile opera di pacificazione. L’intreccio si coagulava comunque attorno alla struggente metafora del monologo del “Grande Inquisitore”, di fronte a un Cristo ammutolito nel mistero di un suo improbabile e “inopportuno” ritorno, impennandosi infine nei lunghi monologhi del titanico Dmitrij-Popolizio. La terza e conclusiva parte - Un errore giudiziario - già concepita e pubblicata nel programma di sala, non è purtroppo mai giunta alla luce, lasciando sospeso un progetto che meritava di avere altra sorte e maggior respiro, sia nei tempi di elaborazione sia nell’eventuale ripresa delle repliche, per dispiegare delle potenzialità che potevano farne un caposaldo di una rinnovata tradizione teatrale italiana. Per la portata del messaggio dostoevskjano, sintesi premonitrice dei grandi temi del Novecento, e per la qualità dell’operazione di riduzione drammaturgica, I fratelli Karamazov poteva infatti divenire - alla maniera della longeva edizione di Copeau, ma soprattutto nell’impronta dei grandi spettacoli creati da Ronconi nel Laboratorio di Prato degli anni Settanta - una delle piattaforme per traghettare la cultura teatrale italiana verso la dimensione europea del nuovo millennio. La scommessa latente, non senza astuzia e ironia, di Ronconi, nella duplice veste di regista e direttore artistico di un grande teatro italiano, era quella di creare a teatro (fondandosi su una ricchissima tradizione) un secondo livello, più colto, stratificato nei suoi contenuti e formalmente ineccepibile, del feuilleton, intramontabile passione del grande pubblico popolare e borghese, prima soddisfatta dalla letteratura non solo “bassa” ed ora definitivamente involgarita dalle soap-opera e dai “teleromanzi”. Il grande pubblico non frequenta più i teatri e quando ci va lo fa come per vedere una televisione “dal vero”, spesso esclusivamente all’inseguimento dei beniamini comici o mattatoriali del piccolo schermo. Deprimente realtà, forse, ma che il teatro non può più ignorare, pena la sua stessa estinzione. Questa tendenza tuttavia non va letta - secondo lo stesso Ronconi - solo in chiave negativa, ma risponde a un bisogno collettivo di ritrovare la “grande narrazione”, quella che diventa appuntamento collettivo, catarsi e trasfigurazione del nostro quotidiano. I bambini la cercano nei cartoons cibernetici, i ragazzi nelle saghe fantastiche o spaziali e nei computer games, gli adulti nelle soap-opera televisive o nell’epopea spettacolare del cinema americano, ma se il feuilleton contemporaneo fosse scritto da dei Dostoevskij e messo in scena (anche quella televisiva) da dei Ronconi, forse qualcosa potrebbe tornare a muoversi nelle coscienze intorpidite del neonato millennio.